Il Tau

 

Le due lingue originali della Bibbia, l'ebraico ed il greco, hanno in comune una lettera dell'alfabeto: il Tau.

Nell'interpretazione ebraica è l'ultima lettera dell'alfabeto e significa il compimento della Parola rivelata, ma è anche l'iniziale della parola Torah, la Legge. Inoltre, prima dell'avvento dei numeri arabi si utilizzavano le lettere, e il Tau nell'alfabeto greco corrisponde al numero 300; nella bibbia il numero si rritrova nella storia di Noè (l'arca era lunga 300 cubiti) e tanti altri riferimenti biblici riportano a questo numero. Nel vangelo 300 erano i denari per cui si poteva vendere il profumo della Maddalena. Diverse interpretazioni dell'Apocalisse di San Giovanni li identificano come il sesto sigillo impresso sulla fronte dei Servi di Dio; e nell'interpretazione di Ubertino da Casale e di San Bernardino da Siena l'angelo del sesto sigillo sarebbe lo stesso Francesco. Il tau fu adottato come simbolo dai primi cristiani; ne troviamo traccia già nelle catacombe a Roma, perchè la sua forma ricordava ad essi la Croce.

Al tempo di Francesco il Tau era anche considerato un segno che proteggeva dalla peste e lo si indossava come amuleto. Ma per Ftrancesco. che lo adottò come firma, era la Croce. Tommaso da Celano nel trattato dei miracoli riferisce: "Familiare gli era la lettera Tau, fra le altre lettera, con la quale soltanto firmava i biglietti e decorava le pareti delle celle. Infatti anche l'uomo di Dio, Pacifico, contemplatore di celesti visioni, scorse con gli occhi della carne sulla fronte del beato padre, una grande lettera Tau, che risplendeva di aureo fulgore".

 

Tratto da: Di qui passò Francesco     

 

 

Tau ritrovato nella cappellina della Maddalena a Fonte Colombo

La spiritualità del Tau

 

Nella devozione al Tau, che animava S.Francesco, si esprime la sua devozione non solo alla croce, ma a tutta la persona ed alla missione del Cristo.

Il Tau è per lui certezza di salvezza (a causa della vittoria del Cristo sul male). Ne è la prova il fatto che, quando frate Leone dubitò del proprio destino eterno, Francesco per mezzo del Tau gli restituì la speranza.

Per lui il Tau è salvezza universale. Con la tua santa croce, hai redento il mondo: così finiva la Preghiera che Francesco ed i suoi confratelli recitavano ogni volta che intravedevano una croce o una sua immagine per terra, su un muro, sul tronco di un albero o in una siepe lungo la strada.

Il Tau è per lui simbolo di conversione permanente e di rinuncia alla proprietà.

Convertirsi, lasciarsi segnare dal Tau, è farsi povero.

Il Tau è per lui esigenza di missione e di servizio agli altri, perchè ricorda che il Signore si è fatto lui stesso nostro servo fino alla morte. pertanto Francesco sarà servo di Dio e servo dei suoi fratelli, in ogni atto, nella preghiera come nella predicazione.

Infine il Tau è per lui segno della bontà e dell'amore di Dio; è il suo titolo di gloria e la fonte della sua perfetta letizia.

Chissà se qualche volta avrà cantata la seguente strofa di un inno latino del XII secolo: Segnato con il Tau, segno di vita, dimostra che vuole essere servo del Cristo crocifisso.

 

Tratto da : Crescere per comunicare - Il cammino della fraternità

 

Lo sguardo di Gesù

 

Nel Vangelo di Luca si legge:

 

"Ma Pietro rispose: 'O uomo, non so quel che tu vuoi dire.' E nel medesimo istante, mentre ancora diceva quelle parole, un gallo cantò; allora il Signore, voltatosi, quardò Pietro, e Pietro.. uscito fuori pianse amaramente.

 

Avevo un ottimo rapporto con il Signore. Gli chiedevo delle cose, conversavo con lui, lo lodavo, lo ringraziavo...

Ma avevo sempre la sgradevole sensazione che Lui volesse che lo guardassi negli occhi.. E io non lo facevo. Parlavo, ma distoglievo lo sguardo quando sentivo che mi stava guardando.

Distoglievo sempre lo sguardo. E sapevo perchè. Avevo paura. Pensavo che avrei trovato nei suoi occhi l'accusa di un qualche peccato di cui non mi ero pentito. Pensavo che avrei trovato una richiesta nei suoi occhi: ci sarebbe stato qualcosa che Lui voleva da me.

Un giorno finalmente mi feci coraggio e guardai! Non c'era nessuna accusa. Non c'era nessuna richiesta. Gli occhi dicevano solo : "Ti amo". Guardai a lungo quegli occhi. Li scrutai. Ma il solo messaggio era : "Ti amo".

 

Ed io uscii e, come Pietro, piansi.  

 

Tratto da : Il canto degli uccelli di De Mello 

Lettera a Giuseppe

 

Caro S.Giuseppe, scusami se approfitto della tua ospitalità e, con una audacia al limite della discrezione, mi fermo per una mezzoretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te.

Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze.

Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto, che sei l'uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensier, profondi come le notti d'Oriente, all'eloquenza dei gesti, più che a quella delle parole

Vedi, un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili. Vi si parlava di tutto: di afari, di donne, di amori, delle stagioni, della vita, della morte.

Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni quarto d'ora dalla torre campanaria, sembravano un'eternità. Ma forse, era proprio questa lusinga d'eternità a rendere preziosa un'opera d'artigianato. E a darle vita, era proprio quella angosciante porzione di tempo che vi veniva racchiusa.

Le cose nascevano, perciò, lentamente e con i tratti di una fisionomia irripetibile. Come un figlio. Prima un atto d'amore, dolcissimo e soave. Poi nove mesi.

Oddi purtroppo, qui da noi, di botteghe ne sono rimaste poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo.

Non si genera più. O meglio, si concepisce solo l'archetipo. Ma senza passione, e con molto calcolo. E' questa anemia di tempo che rende gelide 

le nostre opere.

Ecco, attraverso l'uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tessuto tutto d'un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù per quando sarà grande: gliela prepara fin d'ora, prima che egli nasca.

Io non me ne intendo, e perciò non so se gli arabeschi che disegna con l'ago siano fatti a punto erba, o a punto ombra. Forse sono fatti a punto in croce.

Una cosa però intuisco: che quando tuo figlio indosserà questa tunica, lui, l'eterno, si sentirà le spalle amorosamente protette dal fragile tempo di sua madre.

Oggi da noi, anche i ricami vengono fatti in serie. E se tu, dopo aver comprato un guanciale di segnato a punto Assisi, la notte pensi di poggiare il capo su un frammento di tempo regalatoti da una anonima ricamatrice, ti illudi amaramente.

Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra civiltà. Abbiamo creduto che per fare un tavolo sia sufficiente il legno.

O Dio, riusciano pure ad ammettere che per fare il legno ci vuole l'albero, e che per fare l'albero ci vuole il seme e, perfino, che per fare il seme ci vuole il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci vuole un fiore, e lo lasciamo dire solo ai poeti.

 

Tratto da : La carezza di Dio - Lettera a Giuseppe , di Don Tonino Bello

Lettera a Giuseppe - 2a parte

 

Ma se oggi, qui da noi, di botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto perchè non si genera più, quanto perchè ormai non si ripara più nulla.

Vedi, Giuseppe, in questi pochi minuti dacchè sto parlando con te, sono entrati nella tua bottega un bambino in lacrime con la ruzzola a cui rifare l'asse, una vecchietta con la scranna da impagliare di nuovo, uhn contadino col mastello a cui si è infradicita una doga, un carrettiere col mozzo della ruota che si è sgranato dai raggi.

Da noi non si usa più. Quando un oggetto si è anche leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza appello. Del resto, se nelle sue viscere non racchiude un'anima d'amore, per quale ragione accanirsi a ridare vita ad un corpo già nato cadavere?

La nostra la chiamano: civiltà del'usa e getta.

Alla giacca di fustagno è caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? Ad un paio di sandali si è staccata la fibbia? Non vale la pena ripararli.Portali via al macero. Anzi, no: un momento! Tra qualche giorno passeranno quelli della Caritas parrocchiale. Che fortuna: con una fava prendiamo due piccioni. Per prima cosa ci liberiamo il guardaroba da fastidiosi ingombri, e senza spendere u na lira. E poi aiutiamo la gente, facendo contento il Signore, il quale ha detto che i poveri li avremo sempre con noi. Un angolo di Paradiso, un giorno, non ce lo negherà certamente.

Che c'è , Giuseppe? Ti sei fermato col martello brandito a mezz'aria, e i tuoi occhi mi trafiggono con uno sguardi di disgusto.

Quel tuo sguardo vuol dire:" Mi fate pietà. Altro che usa e getta. Oltrepassando ogni limite avete invertito la frase in getta e usa, dato che snaturate perfino l'intima essenza della carità".

Hai ragione, falegname di Nazareth. Ormai pretendiamo di elevare a purezza i liquami delle nostre cupidigie, verniciamo di solidarietà gli scarti del nostro tornaconto, e ci illudiamo di riscattarci dal nostro inverno dell'amore.

E non ti ho detto tutto. Se tii raccontassi di certe operazioni filantropiche tenute a battesimo dalla televisione, sicuramente metterei a dura prova il tuo essere uomo non violento. Questi sì, sono i misteri buffi che dovrebbero scatenare la nostra indignazione, nel cui oceano stiamo facendo naufragio.

 

Tratto da : La carezza di Dio - Lettera a Giuseppe , di Don Tonino Bello

Lettera a Giuseppe - 3a parte

 

Dimmi, Giuseppe, quand'è che hai conosciuto Maria?

Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l'anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso?

O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conevrava in disparte sotto l'arco della sinagoga?

O forse un meriggio d'estate, in un campo di grano, mentre, abbassando gli occhi splendidi per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all'umiliante mestiere della spigolatrice?

Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi.

Ti scriveva lettere d'amore?

Poi, una notte, hai preso il coraggio a due mani, sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta, e le hai cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici:

"Àlzati, amica mia,
mia bella, e vieni, presto!
Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire

nella nostra campagna.
Il fico sta maturando i primi frutti
e le viti in fiore spandono profumo.
Àlzati, amica mia,
mia bella, e vieni, presto!
mia colomba,
che stai nelle fenditure della roccia,
nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso,
fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è soave,
il tuo viso è incantevole"

E la tua amica, la tua bella, la tua colomba si è alzata, è venuta sulla strada, facendoti trasalire. Ti ha preso la mano nella sua e, mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato un grande segreto.

Ti ha parlato di Jahvè, di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell'universo. Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita.

Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore, e le dicesti tremando: "Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria. Purchè mi faccia stare con te". Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: la tua prima benedizione alla Chiesa nascente.

Io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore.

Lei ha puntato tutto sull'onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tua hai avuto più speranza. la carità ha fatto il resto.  

 

Tratto da : La carezza di Dio - Lettera a Giuseppe , di Don Tonino Bello

Lettera a Giuseppe - 4a parte

 

Sta arrivando una donna dal forno, ti ha portato del pane, e subito la bottega si è riempita di fragranza.

Stavamo parlando di condivisione, ed eccone il segno più classico: il pane.

Si direbbe che il pane, più che per nutrire, sia nato per essere condiviso.

Con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli ospiti di passaggio.

Spezzato sulla tavola, cementa la comunione dei commensali.

Offerto in elemonisa al mendico, gli regala un'esperienza di fraternità.

Donato a chi bussa di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito, che è fame di solidarietà.

E' vero, Giuseppe, il pane è il sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde quello di frumento, procuratole da te col sudore della fronte. Tu mordi il pane del suo destino che l'ha resa Madre del Figlio di Dio.

Insegnaci a condividere.

Purtroppo in questo mondo, dove cinquanta milioni di persone muoiono ogni anno per fame, il pane, da segno di comunione, si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è divenuto il discrimine sul cui filo passa la logica della guerra.

Viene accaparrato dagli ingordi, non condiviso con i poveri.

Ammuffisce nelle credenze degli avidi; si accumula sugli artigli di pochi; sovrabbonda nei bidoni della spazzatura d'Europa, ma è sparito sulle mense desolate dell'Eritrea.

Viene diviso anche come gesto munifico di regaliktà, ma non viene restituito a chi ne ha diritto coi canti gregoriani della penitenza e in nome della giustizia.

Hai mai sentito dire, Giuseppe, che se i ghiacci eterni dell'Ermon si sciogliessere d'incanto, le acque sprofonderebbero a valle con paurose tracimazioni, il lago di Tiberiade diventerebbe un mare, il Giordano strariperebbe rompendo gli argini, e l'arsura della intera Palestina verrebbe per sempre placta?

E allora, visto che presso l'Altissimo ce ne sono pochi di santi così referenziati come te, perchè non provochi un fenomeno simile scongelando le ricchezze dalle mani di pochi e travolgendo la terra in un cataclisma di pane?

E se questo ti sembra un miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi, perchè non persuadi la Chiesa del duemila a farsi carico con più fiducia della sorte degli ultimi, condividendo la miseria degli esclusi?

Capiscp che, se non rispondi, non è solo perchè tu sei l'uomo del silenzio, ma anche perchè la fornaia si è attardata nella tua bottega.

Ha visto la culla e non ha smesso un istante di contemplarla.

Poi si è curvata, ha steso il mantello per terra e l'ha riempito di trucioli e di segatura, di ritagli e di assicelle.

Ogni sera così: lei fa il carico per accendere il fornom e a te rimane il pavimento pulito e sul bancone un pane di granturco per la cena.

 

 

Tratto da : La carezza di Dio - Lettera a Giuseppe , di Don Tonino Bello

Lettera a Giuseppe - 5a parte

 

Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella culla? E perchè mai tu, l'uomo dei sogni, torni ogni tanto verso quel nido di legno, e trattieni il respiro, illudendoti di ascoltare un vagito?

Figlio della casa di davide, frena la tua impazienza. Il bambino che sta per nascere è, sì, un Dio gratuito. Tanto gratuito che spunterà come rugiada sul vello; ma tu devi attendere ancora, ed anche la culla deve attendere.Anzi, non rimanerci male se ti dico che quel nido che tu hai costruito con tanta tenerezza, resterà vuoto per sempre. Da ben altro legno del resto, e in ben altro crepuscolo, saranno cullate le membra del Dio fatto uomo!

Vedo che la notizia non ti turba. Hai imparato così tanto della gratuità purissima di Dio, che non provi il minimo sgomento al pensiero che la tua fatica non sarà compensata neppure dalla soddisfazione di sentirti utile a qualcosa. E continui ad attendere come semplice dono, il tuo imprevedibile Dio.  Anche la tua vita si è fatta dono.

Un dono così grande, che in paragone quello filtrato dal seme corruttibile della carne sembra appena l'acconto di un avaro.

Un dono così libero, che tutte le paternità della tua genealogia messe insieme, non pareggiano il tuo diritto di chiamarti padre di Gesù.

Un dono così radicale che, pur custodendo la verginità di Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente più di quanto non siano tutt'uno due sposi nel momento supremo dell'amore.

Tu non cheidi nulla per te, neppure da Dio. Ma non per orgoglio, per sovraccarico d'amore.

Un carro si è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia sul bancone un piccolo otre di vino.

"Ti ho portato un pò di vino, dalle vigne di Engaggi, laggiù presso il Mar Morto. E' di quello buono. Bevilo alla mia salute con la tua sposa, so che aspettate un figlio".

Stasera il Signore vuole mostrarsi particolarmente generoso anche con me, perchè mi ha messo sotto gli occhi il simbolo della gratuità e della festa.

Dopo il pane, ecco il vino che rallegra il cuore dell'uomo.

Vedo Giuseppe che stai per chiudere, infatti hai preso un orciolo di terracotta ed esci per riempirlo d'acqua alla fonte.

Io ne approfitto per leggere in negativo quel simbolo della letizia.
Ci vuole un bel coraggio infatti, a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, da noi è diventato l'emblema drammatico dell'evasione e della fuga.

Perchè il vino si è pervertito in idolo fascinoso per chi rinuncia ad un'esistenza troppo faticosa da vivere?

Il motivo è che abbiamo smarrito l'ebrezza della gratuità e ci è rimasta solo l'ebrezza dell'alcool.

Così in un mondo regolato dai petrodollari, angosciato dai crolli di Wall Street, che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto, che sfrutta i poveri con traffico delle armi.. come può esplodere la gioia? Ci si lascia vivere. Si amoreggia col fatalismo. Ci si appiattisce in una esistenza che scorre, senza più stupore n'è spessore, come le immagini sul video.

Si muore per anemia cronica di gioia. Si moltiplicano le feste, ma manca la festa. E le letizie diventano sbornie; gli incontri, frastuoni,; e i rapporti umani, orge da lupanari.

 

 

Tratto da : La carezza di Dio - Lettera a Giuseppe , di Don Tonino Bello

Lettera a Giuseppe - 6a parte

 

Hai fatto presto a tornare dalla fonte, Giuseppe. Ora che sei rientrato, anche il vino di Engaddi torna a rosseggiare di letizia pasquale e risplende come simbolo di festa. Bevilo con Maria alla salute del carrettiere che te l'ha regalato; ma anche alla buona fortuna di tuo figlio che sta per nascere. Un giorno egli lo farà scorrere sulle mense dei poveri, e sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato eterno

Anzi, se non ti dispiace, mettimene un poco in quel boccale di creta, me lo voglio portare come ricordo di quest'incontro.

E anche di quell'acqua che sgocciola ancora sul pavimento. Non è acqua inquinata. Le pioggeacide, le discariche industriali e gli additivi chimici ancora non l'hanno inquinata. Dammi della tua acqua, "la quale è molto utile, et umile, et pretiosa, et casta". Ma dammela, sopratutto, perchè da quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici in una sera di tradimenti dek mese di Nisan, diverrà simbolo di un servizio d'amore, che è la spiegazione della condivisione, della gratuità e della festa.

E, visto che ci siamo, dammi anche di quel pane. Non tutto, spezzalo Giuseppe, condividilo con me. Un giorno tuo figlio le spezzerà prima di morire, e la speranza traboccherà sulla terra.

L'acqua, il vino, il pane: la trilogia di un'esistenza ridotta all'essenziale.

 

Si è fatto tardi, Giuseppe.

Nella case, le famiglie recitano lo "Shemà Israel".

Di là, vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L'acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi.

E poi c'è Maria che ti aspetta.

Ti prego, quando entri da lei, sfiorala con un bacio, e dille che anch'io le voglio bene. Da morire.

Buona notte, Giuseppe. 

 

 

Tratto da : La carezza di Dio - Lettera a Giuseppe , di Don Tonino Bello

 

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