Desolazione del povero poeta sentimentale

 

Perchè tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.

Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.

Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.

Perchè tu mi dici: poeta?

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.

Le mie gioie furono semplici,

semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.

Oggi io penso a morire.

Io voglio morire, solamente, perchè sono stanco:

solamente perchè i grandi angioli

su le vetrate delle cattedrali

mi fanno tramare d'amore e d'angoscia;

solamente perchè, io sono, oramai,

rassegnato come uno specchio,

come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:

sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

Oh, non meravigliarti della mia tristezza!

E non domandarmi:

io non saprei dirti che parole così vane,

Dio mio, così vane,

che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.

Le mie lagrime avrebbero l'ansia

Di sgranare un rosario di tristezza

Davanti alla mia anima sette volte dolente,

ma io non sarei un poeta;

sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo

cui avvenisse di preagre, così, come canta e come dorme.

Io mo comunico del silenzio, quotidianamente, come di Gesù.

E i sacerdoti del silenzio sono i romori,

poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

Questa notte ho dormito con le mani in croce.

Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo

Dimenticato da tutti fli umani,

povera tenera preda del primo venuto;

e desiderai di essere venduto, di essere battuto

di essere costretto a digiunare

per potermi mettere a piangere tutto solo,

disperatamente triste, in un angolo oscuro.

Io amo la vita semplice delle cose.

Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,

per ogni cosa che se ne andava!

Ma tu non mi comprendi e sorridi.

E pensi che io sia malato.

Oh, io sono, veramente malato!

E muoio, un poco, ogni giorno.

Vedi: come le cose.

Non sono, dunque, un poeta:

io so che per essere detto: poeta, conviene

viver ben altra vita!

Io non so, Dio mio, che morire.

Amen.

 

Sergio Corrazzini da Piccolo libro inutile

 

 

La Chiesa come barca

 

Nell'iconogradia cristiana la Chiesa è sempre stata rappresentata come una barca, che, guidata da Pietro, si trova a navigare nelle tormentate acque della storia. Anche la vita di ciascuno di noi può essere paragonata a una barca da condurre attraverso le bonacce e le tempeste di ogni giorno. Quando il vento è favorevole, veleggiamo sicuri e la presenza del Signore risulta superflua: siamo capaci di navigare, anzi, vogliamo navigare da soli. Le nostre barche sono piene di impegni, successi, obiettivi raggiunti e il posto per Gesù è difficile da trovare, ci sembra un peso inutile da portare, tanto che preferiamo che rimanga a riva. Ma la tempesta arriva. Prima o poi, inesorabile, la bonaccia si trasforma in burrasca. proprio in quel momento, il Signore ci viene incontro, si affianca alla nostra barca, sconvolgendo regole, facendo venire meno le nostre convinzioni e certezze. Sentiamo il bisogno di una guida sicura alla nostra vita e riconosciamo in Gesù colui al quale affidare il timone. Ma, dopo l'entusiasmo iniziale, arriva il vento della paura, della difficoltà, dell'orgoglio che riemerge: il corpo si fa pesante, il passo della nostra fede insicuro e lentamente corriamo il rischio di affondare. 

E gesù, tendendoci la mano, si manifesta come il Salvatore, come Colui in grado di tenere il timone, nella quiete e nella tempesta, e indicarci la rotta da seguire. Impossibile questo però se non facciamo crescere la nostra piccola e incerta fede. 

 

Tratto da Voi siete la luce del mondo 2010-2011

Il tuo volto io cerco, Signore

 

In Sicilia, il monaco Epifanio un giorno scoprì in sè un dono del Signore: sapeva dipingere icone.

Voleva dipingerne una che fosse il suo capolavoro: voleva ritrarre il volto di Cristo. Ma dove trovare un modello adatto che esprimesse insieme sofferenza e gioia, morte e risurrezione, divinità ed umanità?

Epifanio non si dette più pace: si mise in viaggio; percorse l'Europe scrutando ogni volto. Nulla. Il volto adatto per rappresentare Cristo non c'era.

Una sera si addormentò ripetendo le parole del salmo: "Il tuo volto, Signore, io serco. Non nascondermi il tuo volto". Fece un sogno: un angelo lo riportava dalle persone incontrate e gli indicava un particolare che rendeva quel volto simile a quello di Cristo: la gioia di una giovane sposa, l'innocenza di un bambino, la forza di un contadino, la sofferenza di un malato, la paura di un condannato, la bontà di una madre, lo sgomento di un orfano, la severità di un giudice, l'allegria di un giullare, la misericordia di un confessore, il volto bendato di un lebbroso. Epifanio tornò al suo convento e si mise al lavoro.

Dopo un anno l'icona di Cristo era pronta e la presentò all'Abate ed ai confratelli, che rimasero attoniti e piombarono in ginocchio. Il volto di Cristo era meraviglioso, commovente, scrutava nell'intimo e interrogava. Invano chiesero ad Epifanio chi gli era servito come modello.

 

Tratto da: Squilla francescana

La virtuosa e incessante preghiera

 

Credevo che pregare fosse 

stare davanti a Te,

domandare qualcosa a Te,

raccontare la mia vita a Te,

un tempo da offrire a Te,

una messa da acsoltare,

un vespero, una compieta da finire.

E poi mi sembrava di satre bene

perchè ti avevo dato il tempo,

ma in realtà ti avevo combinato

e da quel momento il tempo era mio.

Che imbroglio, Signore,

proprio un rapporto da dipendente!

 

Apri i miei occhi e il mio cuore a Te

perchè impari la preghiera della vita.

Non più una vita che ti offre

un bocone di tempo per la preghiera,

ma una vita fatta preghiera, come

Francesco un uomo fatto preghiera.

 

Signore,

io sono fatto di momenti

per cui riesco a capire solo

il perchè dei miei vuoti,

il perchè delle mie rabbie,

il perchè dellea fatica,

di stare davanti a Te.

 

Devo sempre chiudere con il lavoro,

con la televisione, con le persone,

con i miei occhi per aprirmi a Te;

e poi chiudo con Te per ritornare....

Ti ringrazio, Signore,

perchè mi fai capire questa specie

di schizofrenia della vita.

Aiutami a scoprire che se mi apro a Te

tutta la mia vita è piena di Te:

i miei occhi si aprono per cercare Te,

il mio cuore batte per Te,

le mie mani stringono Te,

il mio studio è conoscere Te,

il mio parlare è raccontare di Te,

il mio mangiare è per servire meglio Te,

il mio silenzio è per sentire la Tua Parola.

 

Così il mio vivere non sarà più

fatto di qualche preghiera

ma una vita fatta preghiera.

Tu sei, Signore, Padre, Amore.

Più ripeto il tuo nome

più occupi la mia mmente,

riempi la mia vita di Te,

mi fai acquistare la tua dimensione.

Quando unisco "tu sei" e "mio Dio"

Tu diventi azione in me

perchè dove arrivi dai quello che sei.

Il tuo essere "amore"

mi fa capace di amare

come Tu ami e quello che ami .

 

Dimmi, mio Signore,

che mi ami e fammi amore!

"Tu sei"

il deposito di tutta la mia vita,

in Te c'è tutto quello che io cerco

e solo in Te posso incontrare il mio io,

nella tua storia è contenuta la mia storia,

nel tuo amore divento amore.

Tu sei in me

e da qui parte la meraviglia della vita.

Io credevo che accoglierti fosse farti dono,

considerarti importante come fossi io

a farti diventare "mio Signore".

Francesco, Egidio mi hanno insegnato

che Tu sei colui che viene a visitarmi,

e se io ti apro tu stai con em

e fai di me quello che Tu sei.

 

Con Te non sono solo,

con Te sono pieno della tua vita,

del tuo senso, del tuo gusto.

Da povero che ero da solo

sono diventato "un signore"

perchè Tu hai pensato

di venire da me, proprio da me!

 

Tratto da : Il Signore mi donò dei fratelli testo di formazione 2002

 

 

 

 

Maria, donna senza retorica

 

Lo so bene: non è un'invocazione da mettere nelle litanie lauretane. Ma se dovessimo riformulare le nostre preghiere a Maria in termini più laici, il primo appellativo da darle dovrebbe essere questo: donna senza retorica.

Donna vera, perchè acqua e sapone. Perchè senza trucchi spirituali. Perchè, pur benedettatra tutte le donne, paserebbe irriconoscibile in mezzo a loro se non fosse per quell'abbigliamento che Dio ha voluto confezionarle su misura: "vestita di sole e coronata di stelle".

onna vera, ma soprattutto, donna di poche parole. Non perchè timida, come Rossella che tace sempre per paura di sbagliare. Non perchè irresoluta, come Daniela che si arrende sistematicamente ai soprusi del marito, al punto che tronca ogni discussione dandogli sempre ragione. Non perchè arida di sentimenti o incapace di esprimerli, come Lella, che pure di sentimenti ne ha da vendere, ma non sai mai da dove cominciare e rimane sempre zitta.

Donna di poche parole, perchè, afferrata dalla Parole, ne ha così vissuta la lancinante essenzialità, da saper distinguere senza molta fatica il genuino tra mille surrogati, il panno forte nella sporta degli straccivendoli, la voce autentica in una libreria di apocrifi, il quadro d'autore nel cumulo delle contraffazioni.

Nessun linguaggio umano deve essere stato così pregnante come quello di Maria. Fatto di monosillabi, veloci come un "si". O di susurri, brevi come un "fiat". O di abbandoni, totali come un "amen". O di riverberi biblici, ricuciti dal filo di una sapienza antica, alimentata da fecondi silenzi.

Icona dell'antiretorica, non posa pee nessuno. Neppure per il suo Dio. Tanto meno per i predicatori, che l'hanno spesso usata per gli sfoghi della loro prolissità.

Proprio perchè in lei non c'è nulla di declamatorio, ma tutto è preghiera, vogliamo farci accompagnare da lei lungo i tornanti della nostra povera vita, in un digiuno che sia, soprattutto, di parole.

 

Tratto da Maria donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

 

Maria, donna dell'attesa

 

La vera tristezza non è quando, la sera, non sei atteso da nessuno al tuo rientro a casa, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita.

E la solitudine più nera, la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio.

Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun'anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più nè soprassalti di gioia per una buona notizia, nè trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere.

La vita allora scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco.

Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere.

Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura allo spessore delle sue attese. Forse è vero.

Se è così, bisogna concludere che Maria è la più santa delle creature proprio perchè tutta la sua vita appare cadenzata dai ritmi gaudiosi di chi aspetta qualcuno.

Già il contrassegno iniziale con cui il pennello di Luca la identifica, è carico di attese: "Promessa sposa di un uomo della casa di Davide".

Fidanzata, cioè.

A nessuno sfugge a quale messe di speranze e di batticuorei faccia allusione quella parola che ogni donna sperimenta come preludio di misteriose tenerezze. Prima ancora che nel Vangelo venga pronunciato il suo nome, di maria si dice che era fidanzata. Vergine in attesa. In attesa di Giuseppe. In ascolto del frusciare dei suoi sandali, sul far della sera, quando, profumato di legni e di vernici, egli sarebbe venuto a parlarle dei suoi sogni.

Ma anche nell'ultimo fotogramma con cui Maria si congeda dalle Scritture essa viene colta dall'obiettivo nell'atteggiamento dell'attesa.

Lì, nel cenacolo, al piano superiore, in compagnia dei discepoli, in attesa dello Spirito. In ascolto del frusciare della sua ala, sula fare del giorno, quando, profumato di unzioni e di santità, egli sarebbe disceso sulla Chiesa per additarle la sua missione di salvezza.

Vergine in attesa, all'inizio.

Mader in attesa, all fine.

E nell'arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l'altra così divina, cento altre attese struggenti.

L'attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L'attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L'attesa del giorno, l'unco che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L'attesa dell'ora: l'unica per la quale non avrebbe saputo frenare l'impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L'attesa dell'ultimo rantolo dell'unigenito inchiodato sul legno. L'attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.

Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all'infinito.     

 

Tratto da Maria donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

 

Maria, donna innamorata

 

I love you, Je t'aime, Te quiero, Ich liebe Dich.

Ti voglio bene, insomma.

 Io non so se ai tempi di maria si adoperassero gli stessi messaggi d'amore, teneri come giaculaorie e rapidi come graffiti, che le ragazze di oggi incidono furtivamente sul libro di storia o sugli zaini colorati dei loro compagni di scuola.

 Penso, però, che, se non proprio con la penna a sfera sui jeans, o con i gessetti sui muri, le adolescenti di Paòestina si comportassero come le loro coetanee di oggi.

 Con "stilo di scriba veloce" su una corteccia di sicomòro, o con la punta del vincastro sulle sabbie dei pascoli, un codice dovevano pure averlo per trasmettere ad altri quel sentimento, antico e sempre nuovo, che scuote l'anima di ogni essere umano quando si apre al mistero della vita: ti voglio bene!

 Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell'esistenza, fatta di stupori e di lacrime, di trasalimenti e di dubbi, di tenerezza e di trepidazione, in cui, come in una coppa di cristallo, sembrano distillarsi tutti i profumi dell'universo.

 Ha assaporato pure lei la gioia degli incontri, l'attesaa delle feste, gli slanci dell'amicizia, l'ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe èer un complimento, la felicità per un abito nuovo.

 Cresceva come un'anfora sotto le mani del vasaio, e tutti si interrogavano sul mistero di quella trasparenza senza scorie e di quella freschezza senza ombre.

 Una sera, un ragazzo di nome Giuseppe prese il coraggio a due mani e le dichiarò: "Maria, ti amo". Lei gli rispose, veloce come un brivido: "Anch'io". E nell'iride degli occhi le sfavillavano, riflesse, tutte le stelle del firmamento.

Le compagne, che sui prati sfogliavano con lei i petali di verbena, non riuscivano a spiegarsi come facesse a comporre i suoi rapimenti in Dio e la sua passione per una creatura. Il sabato la vedevano assorta nell'esperienza sovrumana dell'estasi, quando, nei cori della sinagoga, cantava: "O Dio, tu sei il mio Dio, dall'aurora ti cerco: di te ha sete l'anima mia come terra deserta, arida, senz'acqua". Poi la sera rimanevano stupite quando, raccontandosi a vicenda le loro pene d'amore sotto il plenilunio, la sentivano parlare del suo fidanzato, con le cadenze del Cantico dei cantici: "Il mio diletto è riconoscibile tra mille....I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua... Il suo aspetto è come quello del Lbano, magnifico tra i cedri..".

 Per loro, questa composizione era un'impresa disperata. Pe maria, invece, era come mettere insieme i due emisferi d'un versetto dei Salmi.

Per loro, l'amore umano che sperimentavano era come l'acqua di una cisterna: limpidissima, sì, ma con tanti detriti sul fondo. Bastava un nonnulla perchè i fondigli si rimescolassero e le acque divenissero torbide. Per lei no.

Non potevano mai capire, le ragazze di Nazareth, che l'amore di maria non aveva fondigli, perchè il suo era un pozzo senza fondo.

 

Tratto da Maria donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

 

 

Maria, donna gestante

 

"Rimase con lei circa tre mesi. Poi tornò a casa sua". 

Il Vangelo stavolta non dice se vi tornò "in fretta", come fu per il viaggio di andata. Ma c'è da supporlo.

Da Nazareth era quasi scappata di corsa, senza salutare nessuno. Quell'incredibile chiamata di Dio l'aveva sconvolta. Era come se, improvvisamente, all'interno della sua casetta si fosse spalancato un cratere e lei vi camminasse sul ciglio in preda alle vertigini. E allora, per non precipitare nell'abisso, si era aggrappata alla montagna.

Ma ora bisognava tornare. Quei tre mesi di altura le erano bastati per placare i tumulti interiori. Vicino a Elisabetta aveva portato a compimento il noviziato di una gestazione di cui cominciava lentamente a dipanare il segreto.

Ora bisognava scendere in pianura e affrontare i problemi terra terra a cui va incontro ogni donna in attesa. Con qualche complicazione in più. Come dirglielo a Giuseppe? E alle compagne con cui aveva condiviso finoa  poco tempo prima i suoi sogni di ragazza innamorate, come avrfebbe spiegato il mistero che le era scoppiato nel grembo? Che avrebbero detto in paese?

Sì., anche a Nazareth voleva giungere in fretta. perciò accelerava l'andatura, quasi danzando sui sassi. Oltretutto, su quei sentieri di campagna, vi si sentiva sospinta come dal vento, di cui, però, le foglie degli ulivi e i pampini delle viti non lasciavano percepire la brezza, nell'immota calura dell'estate di Palestina.

Per placare il batticuore, che pure tre mesi prima non aveva provato in salita, si sedette sull'erba.

Solo allora si accorse che il ventre le si era curvato come una vela. E capì per la prima volta che quella vela non issava sul suo fragile scafo di donna, am sulla grande nave del  mondo per condurla verso spiagge lontane.

Non fece in tempo a rientrare in casa, che Giuseppe, senza chiederle neppure che rendesse più esaurienti le spiegazioni ornitegli dall'angelo, se la portò subito con sè.

Ed era contento di starle vicino. Ne spiava i bisogni. Ne capiva le ansie. Ne interpretava le improvvise stanchezze. Ne assecondava i preparativi per un natale che ormai non poteva tardare.

Una notte, lei gli disse: "Senti, Giuseppe, si muove". Lui allora le posò sul grembo la mano, leggera come batito di palpebra, e rabbrividì di felicità.

Maria non fu estranea alle tribolazioni a cui è assoggettata ogni comune gestante. Anzi, era come se si concentrassero in lei le speranze, sì, ma anche le paure di tutte le donne in attesa. Che ne sarà di questo frutto, non encora maturo, che mi porto in seno? Gli vorrà bene la gente? Sarà contento di esistere? E quanto peserà su di me il versetto della Genesi: "Partorirai i figli nel dolore"?

Cento domande senza risposta. Cento presagi di luce. Ma anche cento inquietudini. Che si intrecciavano attorno a lei quando le parenti, la sera, restavano a farle compagnia fino a tardi. Lei ascoltava senza turbarsi. E sorrideva ogni volta che qualcuna mormorava: "Scommetto che sarà femmina". 

 

 

Tratto da Maria donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

Maria, donna accogliente

 

La frase si trova in un testo del Concilio, ed è splendida per dottrina e concisione. Dice che, all'annuncio dell'angelo, Maria vergine "accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio".

Nel cuore e nel corpo.

Fu, cioè, discepola e madre del Verbo. Discepola, perchè si mise in ascolto della Parola, e la conservò per sempre nel cuore. Madre, perchè offrì il suo grembo alla Parola, e la custodì per nove mesi nello scrigno del corpo. Sant'Agostino osa dire che Maria fu più grande per aver accolto la Parola nel cuore che per averla accolta nel grembo.

Forse per capire fino in fondo la bellezza di questa verità, il vocabolario non basta. Bisogna ricorrere alle espressioni visive. E allora non c'è di meglio che rifarsi a una celebre icona orientale, che raffigura Maria col divin Figlio Gesù inscritto sul petto. E' indicata come la Madonna del segno, ma potrebbe essere chiamata la Madonna dell'accoglienza, perchè con gli avambracci levati in alto, in atteggiamento di offertorio o di resa, essa appare il simbolo vivo della più gratuita ospitalità.

Accolse nel cuore.

Fece largo, cioè, nei suoi pensieri ai pensieri di Dio; ma non si sentì per questo ridotta al silenzio. Offrì volentieri il terreno vergine del suo spirito alla germinazione del Verbo; ma non si considerò espropriata di nulla. Gli cedette con gioia il suolo più inviolabile della su avita interiore; ma senza dover ridurre gli spazi della sua libertà. Diede stabile alloggio al Signore nelle stanze più segrete della sua anima; ma non ne sentì la presenza come violazione di domicilio.

Accolse nel corpo.

Sentì, cioè, il peso fisico di un altro essere che prendeva dimora nel suo grembo di madre. Adattò, quindi, i suoi ritmi a quelli dell'ospite. Modificò le sue abitudini, in funzione di un compito che non le alleggeriva certo la vita. Consacrò i suoi giorni alla gestazione di una creatura che non le avrebbe risparmiato preoccupazioni e fastidi. E poichè il frutto benedetto del suo seno era il Verbo di Dio che si incarnava per la salvezza dell'umanità, capì di aver contratto con tutti i figli di Eva un debito di accoglienza che avrebbe pagato con cambiali di lacrime.

Accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio.

Quella ospitalità fondamentale la dice lunga sullo stile di Maria, delle cui mille altre accoglienze il vangelo non parla, ma che non ci è difficile intuire. Nessuno fu mai respinto da lei. E tutti trovarono riparo sotto la sua ombra. Dalle vicine di casa, alle antiche compagne di Nazareth. Dai parenti di Giuseppe, agli amici di gioventù di suo figlio. Dai poveri della contrada, ai pellegrini di passaggio. Da Pietro in lacrime dopo il tradimento, a Giuda che forse quella notte non riuscì a trovarla in casa...  

 

Tratto da Maria donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

Maria, donna del primo passo

Devo chiederlo agli specialisti. Non riesco a spiegarmi, infatti, perchè mai quella parola del testo greco, che a me sembra così densa di allusioni, non sia passata nella traduzione italiana.

Mi spiego. Quando, al primo capitolo del suo Vangelo, Luca dice che, partito l'angelo di Nazareth, "Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta la città di Giuda", nel testo originale, dopo la parola Maria, c'è un participio: "anastàsa".

Letteralmente significa: "alzàtasi". E potrebbe essere una locuzione stereotipa: uno di quei tanti termini rioetitivi, cioè, che nei mostri discorsi fanno da mastice tra un racconto e l'altro. Se fosse così, data la sua insignificanza espressiva, lìomissione nel testo italiano si giustificherebbe in pieno.

Ma, a ben guardare, la parola "anastàsa" ha la stessa radice del sostantivo "anàstasis", il classico vocabolo che indica l'avvenimento centrale della nostra fede e , coioè, la risurrezione del Signore. Sicchè, potrebbe essere tradotta tranquilla mente con "risorta".

E allora, tenuto conto che Luca rilegge l'infanzia di Gesù alla luce degli avvenimenti pasquali, è proprio fuori posto sospettare che la parola "anastàsa" sua qualcosa di più di uno stereotipo inespressivo? E' rischioso pensare che voglia alludere ,invece, a Maria come simbolo della Chiesa "risorta" che, in tutta fretta, si muove a portare lieti annunci al mondo? E' un pò troppo affermare che sotto quella parola si condensi il compito missionario della Chiesa, la quale, dopo la risurrezione del Signore, ha il compito di portare nel grembo Gesù Cristo per offrirlo agli altri, come appunto fece Maria con Elisabetta?

La butto lì.

Una conclusione, comunque, mi sembra evidente: che, anche se la parola "anastàsa" non ha quella pregnanza teologica di cui ho parlato, sta, però, a sottolineare per lo meno una cosa: la risolutezza di Maria.

Eì lei che decide di muoversi per prima: non viene sollecitata da nessuno. E' lei che s'inventa questo viaggio: non riceve suggerimenti dall'esterno. E' lei che si risolve a fare il primo passo: non attende che siano gli altri a prendere l'iniziativa.

Dall'accenno discretissimo dell'angelo ha avuto la percezione che la sua parente doveva trovarsi in serie difficoltà. Perciò, senza frapporre indugi e senza stare a chiedersi se toccava a lei o meno dare inizio alla partita, ha fatto bagagli, e via! Su per i monti di Giudea. "In fretta", per giunta. O, come traduce qualcuno, "con preoccupazione".

Ci sono tutti gli elementi per leggere, attraverso questi rapidi spiragli verbali, lo stile intrapendente di Maria. Senza invadenze. Stile confermato, del resto, alle nozze di Cana, quando, dopo aver intuito il disagio degli sposi, senza esserne da loro pregata, giocò la prima mossa e diede scacco matto al re.

Aveva proprio ragione Dante Alighieri nell'affermare che la benignità della Vergine non soccorre soltanto colui che a lei si rivolge,ma "molte fiate liberamente al dimandar precorre".

 

Tratto da : Maria donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello       

Maria, donna missionaria

 

Gli esperti assicurano che si tratta del testo mariano più antico del Nuovo Testamento. Si trova nel capitolo quarto della lettera ai Galati: "Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna...".

E' un passo che esprime, pur nella sua sobrietà, una suggestione incomparabile, non solo perchè ci parla di stagioni ormai mature per la redenzione, ma anche perchè, con quel "nato da donna", ci fa capire due cose molto importanti: il radicamento dell'Eterno sul ceppo dell'umanità, e il radicamento di Maria nel progetto salvifico di Dio.

Ciò che, però, personalmente mi colpisce di più in questa frase non è tanto l'esplicita affermazione della maternità divina di Maria, quanto il fatto che ella, fin dal suo timido ingresso iniziale sul vasto proscenio biblico, compare accanto a un missionario. Sì, perchè Gesù Cristo è presentato in questo testo come il grande inviato da Dio. Il verbo "mandò", infatti, è il termine tipico per indicare la missione; qualifica il Figlio, in modo chiarissimo, come l'apostolo del Padre.

E allora non vi sembra splendido che Maria, per affacciarsi sulla veranda della storia della salvezza, abbia scelto di esibirsi in pubblico per la prima volta strettamente associata al grande missionario, quasi per significare che il tratto fondamentale della sua figura materna è quello della missionarietà?

Certo, nel Vangelo si trovano tanti passi che manifestano più concretamente la funzione missionaria di Maria.

Basterebbe pensare alla visita presso la cugina Elisabetta.

Sembra quasi che la Vergine si muova sotto la spinta dello stesso verbo che ha sollecitato l'angelo Gabriele a portare a Nazareth il lieto annuncio: "Fu mandato".

"Missus est angelus Gabriel a Deo...". Fu mandato!

Troppo forte l'urto di quel verbo: sulla terra, ha scaricato il rimanente dinamismo su Maria, che si è messa in viaggio verso le alture di Giudea.

Fu mandata anche lei, insomma.  All'origine della sua trasferta c'è ancora una volta il tipico verbo missionario. E, portando Cristo nel grembo, è divenuta il primo ostensorio di lui, ha inaugurato le precessioni del Corpus Domini, ed è andata a portare annunci di liberazione ai parenti lontani.

A questo e ad altri passi si potrebbe pensare ogni volta che si parla di Maria come messaggera della buona novella. A me sembra, però, che, volendo scorgere la dimensione missionaria di lei, non ci sia episodio biblico che possa pareggiare la pregnante forza teologica di quel suo esordio accanto a Cristo, così viene delineato nella lettera ai Galati.

 

Tratto da : Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

 

Maria, donna di parte

 

No, non fu neutrale. Basta leggere il Magnificat per rendersi conto che Maria si è schierata. Ha preso posizione, cioè. Dalla parte dei poveri, naturalmente. Degli umiliati e offesi di tutti i tempi. Dei discriminati dalla cattiveria umana e degli esclusi dalla forza del destino. Di tutti coloro, insomma, che non contano nulla davanti agli occhi della storia.

Non mi va di avallare certe interpretazioni che favoriscono una lettura puramente politica del Magnificat, quasi fosse, nella lotta continua tra oppressi e oppressori, una specie di Marsigliese "ante litteram" del fronte cristiano di liberazione. Significherebbe ridurre di gran lunga gli orizzonti dei sentimenti di Maria, che ha cantato liberazioni più profonde e durature di quelle provocate dalle semplici rivolte sociali. I suoi accenti profetici, pur includendole, vanno oltre le rivendicazioni di una giustizia terrena e scuotono l'assetto di ben più radicali iniquità.

Sta di fatto, però, che sul piano storico Maria ha fatto una precisa scelta di campo. Si è messa dalla parte dei vinti. Ha deciso di giocare con la squadra che perde. Ha scelto di agitare come bandiera gli stracci dei miserabili e non di impugnare i lucidi gagliardetti dei dominatori.

Si è arruolata, per così dire, nell'esercito dei poveri. Ma senza roteare le armi contro i ricchi. Bensì, invitandoli alla diserzione. E intonando, di fronte ai bivacchi notturni del suo accampamento, perchè le udissero dall'altro, canzoni cariche di nostalgia.

Ha esaltato, così, la misericordia di Dio. E ci ha rivelato che è partigiano anche lui, visto che prende le difese degli umili e disperde i superbi nei pensieri del loro cuore; stende il suo braccio a favore dei deboli e fa rotolare i violenti dai loro piedistalli con le ossa in frantumi; ricolma di beni gli affamati e si diverte a rimandare i possidenti con un pugno di mosche in mano e con un palmo di naso in fronte.

Qualcuno forse troverà discriminatorio questo discorso, e si chiederà come possa conciliarsi la collocazione di Maria dalla parte dei poveri con l'universalità del suo amore e con la sua riconosciuta tenerezza per i peccatori, di cui i superbi, i prepotenti e i senza cuore sono la razza più inquietante.

La risposta non è semplice. Ma diventa chiara se si riflette che Maria non è come certe madri che, per amor di quieto vivere, danno ragione a tutti e, pur di non creare problemi, finiscono con l'assecondare i soprusi dei figli più discoli. No. lei prende posizione. Senza ambiguità e senza mezze misure. La parte, però, su cui sceglie di attestarsi non è il fortilizio delle rivendicazioni di classe, e neppure la trincea degli interessi di un gruppo. Ma è il terreno, l'unico, dove lei spera che un giorno, ricomposti i conflitti, tutti i suoi fiigli, ex oppressi ed ex oppressori, ridiventati fratelli, possano trovare finalmente la loro liberazione. 

 

Tratto da : Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

 

 

Maria, donna del primo sguardo

 

Sì, è stata lei la prima a posare gli occhi sul corpo nudo di Dio.

E l'ha avvolto immediatamente con lo sguardo.

Prima ancora di avvolgerlo in fasce.

Anzi, l'ha coperto subito nei panni, quasi per comprimere la luce di quel corpo e non rimanere accecata.

Eccolo lì, l'atteso delle genti lambito dagli occhi di Maria, come agnello tremante sfiorato dalla lingua materna.

I patriarchi ne avevano spiato l'arrivo fin dai secoli remoti. Ma, pur inarcando i sopraccigli canuti, non ebbero la gioia di vederlo.

I profeti, con vaticini carichi di mistero, ne avevano disegnato il volto. Ma i loro occhi si erano chiusi senza poterlo fissare da vicino.

I poveri avevano provato mille soprassalti a ogni stormire di notizie. Ma si dovettero accontentare ogni volta di inseguirlo nei sogni.

Nelle notti d'inverno i pastori, al crepitare del bivacco, parlavano di colui che sarebbe venuto. E i loro occhi, mentre si allenavano a sostenere la fiamma dei sarmenti, luccicavano di febbre.

Nelle sere di primavera, dense di presagi, i padri additavano ai figli le stelle del firmamento e li cullavano con la cadenza di antiche elegie: "Oh, se tu squarciassi i cieli e scendessi!....". Poi chiudevano le palpebre anche loro, stanchi di scrutare.

Le fanciulle ebree, profumate di gerani e di desideri, si confidavano l'un l'altra ingenui presentimenti di arcane maternità. Ma nel lampeggiare delle pupille balenava subito la malinconia dolcissima di chi non verrà mai esaudito.

Occhi di vegliardi e di bambini. Occhi di esuli e di oppressi. Occhi di sofferenti e di sognatori.

Quanti occhi protesi verso di lui! Anelanti la vista del suo volto. Delusi per i ritardi imprevisti.. Stanchi per lunghe vigilie. Fiammeggianti per subitanee speranze. Chiusi sottoterra per sempre, dopo l'ultima struggente invocazione:"Ostende faciem tuam!".

Ed eccolo finalmente lì, l'Emmanuele, bagnato dalle lacrime della puerpera, che scintillano come gemme al guizzar della lanterna.

Gli occhi di Maria tremano d'amore sul corpo di Gesù. Nella loro profondità si riaccende una lunga catena di sguardi inesauditi del passato. Nelle sue pupille si concentra la trepidazione di attese secolari. E nell'iride le si destano all'improvviso fuochi sopiti sotto le ceneri del tempo.

Maria diventa così la donna del primo sguardo.

Solo una creatura come lei, d'altra parte, poteva dare degnamente il benvenuto sulla terra al Figlio di Dio, accarezzandolo con occhi trasparenti di santità.

Dopo di lei, avranno il privilegio di vederlo tanti altri. Lo vedrà Giuseppe. Lo vedranno i pastori. Più tardi, lo vedrà Simeone, che se ne morirà in pace perchè i suoi occhi hanno potuto contemplare la salvezza di Dio...

ma la prima a fasciarlo con la tiepida trama del suo sguardo , nella notte profumata di muschio e di stalla, perchè il fieno non lo pungesse e il freddo non lo raggelasse, fu lei.

Donna del primo sguardo: prescelta, cioè, dai secoli eterni per essere, dopo una foresta di attese, riviera limpidissima bagnata dal fiume della grazia.

 

Tratto da : Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello


Maria, donna del pane

 

"E lo depose nella mangiatoia".

Nel giro di poche righe, la parola "mangiatoia" è ripetuta tre volte. La qual cosa, tenuto conto dello stile di Luca, insospettisce non poco.

L'evangelista allude: non c'è dubbio. Lui, il pittore, vuole ritrarre Maria nell'atteggiamento di chi riempie il cestino vuoto della mensa. Se è vero che nella mangiatoia si mette il pasto per gli animali, non è difficile leggere in quella collocazione l'intendimento di presentare Gesù, fin dal suo primo apparire, come cibo del mondo. Anzi, come il pane del mondo.

Sotto, quindi, la paglia per le bestie.

Sopra la paglia, il grano macinato e cotto per gli uomini.

Sulla mangiatoia, avvolto in fasce come in candida tovaglia, il pane vivo disceso dal cielo.

Accanto alla mangiatoia, come dinanzi al tabernacolo, la fornaia di quel pane.

Maria aveva capito bene il suo ruolo fin da quando si era vista condotta dalla Provvidenza a partorire lontano dal suo paese, lì a Betlem: che vuol dire, appunto, casa del pane.

Per questo, nella notte del rifiuto, ha usato la mangiatoia come il canestro di una mensa. Quasi per anticipare, con quel gesto profetico, l'invito che Gesù, nella notte del tradimento, avrebbe rivolto al mondo intero: "Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi".

Maria, portatrice di pane, dunque. E non solo di quello spirituale.

Deformeremmo la sua figura se la sottraessimo alla preoccupazione umana di chi si affatica per non lasciare vuota la mensa di casa sua. Sì, ella ha tribolato per il pane materiale. E qualche volta, quando non riusciva a procurarselo, forse avrà pianto in segreto. Come quell'altra Maria, povera donna, che abita in un sottano con una nidiata di figli e col marito disoccupato, e, per insolvenza, non le fanno più credito neppure al negozio di generi alimentari.

Gesù deve aver letto negli occhi splendenti di sua madre il tormento del pane quando manca, e l'estasi del suo aroma quando, caldo di cenere, si sbriciola sulla tovaglia in un arcipelago di croste.

Per questo c'è nel Vangelo tanto tripudio di pane, che dividendosi si moltiplica, e, passando di mano in mano, sazia la fame dei poveri adagiati sull'erba, e trabocca nella rimanenza di dodici sporte.

Per questo, al centro della preghiera da rivolgere al Padre, Gesù ha inserito la richesta del pane quotidiano. E ha lasciato a noi la formula per implorare dalla Madre la grazia di una sua giusta distribuzione, in modo che nessuno dei figli rimanga a digiuno.

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

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