Maria, donna di frontiera

 

Compare appena sullo scenario della salvezza, e già la vediamo intenta a varcare confini.

Se non proprio con i visti rilasciati dal Ministero degli Esteri, deve subito vedersela con le tribolazioni che si accompagnano a ogni espatrio forzato. Come una emigrante qualsiasi del Meridione. Anzi peggio. Perchè non deve passare la frontiera per motivi di lavoro. Ma in cerca di asilo politico. Molto chiaro l'ordine trasmesso dall'angelo a Giuseppe:"Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finchè ti avvertirò, perchè Erode sta cercando il bambino per ucciderlo".

Ed eccola lì, sul confine. Da una parte, l'ultima terra rossa di Canaan. Dall'altra, la prima sabbia dei faraoni.

Eccola lì, tremante come una cerva inseguita. E' vero che gode del diritto di extraterritorialità, dal momento che stringe tra le braccia colui il cui dominio va "da mare a mare e dal fiume fino agli estremi confini della terra". Ma sa pure che, come salvacondotto, è troppo rischioso esibire quel bambino alla polizia di frontiera.

Il vangelo non ci lascia neppure una riga di quel drammatico momento. Ma non è difficile figurarsi Maria, trepida e coraggiosa lì, sullo spartiacque di due culture così diverse. Quella foto di gruppo, che Matteo non ha scattato sulla striscia doganale, ma che si conserva ugualmente nell'album del nostro immaginario più vero, rimane una icona di incompatibile suggestione per tutti noi, che oggi siamo chiamati a confrontarci con nuovi costumi e nuovi linguaggi.

Perfino nel suo congedo dalla scena biblica Maria si caratterizza come donna di frontiera. E' presente, difatti, nel cenacolo, quando lo Spirito Santo, scendendo sui membri della Chiesa nascente, lì costituisce "testimoni fino agli estremi confini della terra".

Noi non sappiamo se, seguendo Giovanni, ha dovuto varcare ancora una volta le frontiere. Secondo alcuni, avrebbe chiuso i suoi giorni nella città di Efeso: all'estero, cioè. Una cosa è certa: che, dal giorno di Pentecoste, Maria è divenuta madre di "una moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua", e ha acquistato una cittadinanza planetaria che le permette di collocarsi su tutte le frontiere del mondo, per dire ai suoi figli che queste, prima o poi, sono destinate a cadere.

Ma c'è un momento ancora più forte in cui Maria si staglia, con tutta la sua grandezza simbolica, come donna di frontiera. E' il momento della croce.

Quel legno non solo ha abbattuto il muro di separazione che divideva gli ebrei dai pagani, facendo dei due un popolo solo, ma ha anche riconciliato l'uomo con Dio nell'unica carne di Cristo. La croce rappresenta, perciò, l'ultima linea di demarcazione tra cielo e terra. Il confine, ormai valicabile, tra tempo ed eternità. La frontiera suprema, attraverso la quale la storia umana entra in quella divina e diventa l'unica storia di salvezza.

Ebbene, Maria sta presso quella frontiera. E la bagna di lacrime.

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

Questo Gesù risorto è un provocatore!

 

Io mi arrabbio, e Lui mi dice : Perdona!

Io ho paura, e Lui mi dice : Coraggio!

Io ho dubbi, e Lui mi dice : Fidati!

Io sono inquieto, e Lui mi dice : Sii tranquillo!

Io voglio star comodo, e Lui mi dice : Seguimi!

Io faccio progetti e Lui mi dice : Mettili da parte!

Io accumulo, e Lui mi dice : Lascia tutto!

Io voglio sicurezza, e Lui mi dice : Dona la tua vita!

Io penso di essre buono, e Lui mi dice : Non basta!

Io voglio essere primo, e Lui mi dice : Cerca di servire!

Io voglio comandare, e Lui mi dice : Ascolta!

Io voglio comprendere, e Lui mi dice : Abbi fede!

Io voglio tranquillità, e Lui mi chiede Disponibilità!

Io voglio rivincita, e Lui mi dice : Guadagna tuo fratello!

Io metto mano alla spada, e Lui mi dice : Riconciliati!

Io penso alla vendetta, e Lui mi dice : Porgi l'altra guancia!

Io voglio essere Grande, e Lui mi dice : Diventa come un bambino!

Io voglio nascondermi, e Lui mi dice : Mostrami la tua luce!

Io voglio il primo posto, e Lui mi dice : Siediti all'ultimo!

Io voglio essere visto, e Lui mi dice : Prega nella tua stanza!

No! Proprio non capisco questo Gesù! Mi provoca.

Come molti dei suoi discepoli, anch'io avrei voglia di cercarmi un maestro meno esigente. Però anche a me succede come a Pietro :

"Io non conosco nessuno che abbia parole di Vita eterna come Lui!"

 

 

 

Maria, donna coraggiosa

 

Sarà stato effetto di quel "non temere" pronunciato dall'angelo dell'annunciazione, certo è che, da quel momento, Maria ha affrontato la vita con una incredibile forza d'animo, ed è divenuta il simbolo delle "madri coraggio" di tutti i tempi.

E' chiaro: ha avuto a che fare anche lei con la paura.

Paura di non essere capita. Paura per la cattiveria degli uomini. Paura di non farcela. Paura per la salute di Giuseppe. Paura per la sorte di Gesù. Paura di rimanere sola... Quante paure!

Se ancora non ci fosse, bisognerebbe elevare un santuario alla "Madonna della paura". Nelle sue navate ci rifuggeremmo un pò tutti, perchè tutti, come Maria, siamo attraversati da quell'umanissimo sentimento che è il segno più chiaro del nostro limite.

Paura del domani. Paura che possa finire all'improvviso un amore coltivato per tanti anni. Paura per il figlio che non trova lavoro ed ha superato la trentina. Paura per la sorte della più piccola di casa che si ritira sempre dopo mezzanotte, anche d'inverno, e non le si può dire niente perchè risponde male. Paura per la salute che declina. Paura della vecchiaia. Paura della notte. Paura della morte...

Ebbene, nel santuario eretto alla "Madonna della paura", davanti a lei divenuta la "Madonna della fiducia", ciascuno di noi ritroverebbe la forza per andare avanti, riscoprendo i versetti di un salmo che Maria avrà mormorato chi sa quante volte:"Pur se andassi per valle oscura, non avrò a temere alcun male, perchè sempre mi sei vicino.. lungo tutto il migrare dei giorni".

Madonna della paura, dunque, ma non della rassegnazione. Perchè lei non si è lasciata cadere le braccia nel segno del cedimento, nè le ha mai alzate nel gesto della resa. Una volta sola si è arresa: quando ha pronunciato il "fiat" e si è consegnata prigioniera al suo Signore.

Da allora, ha sempre reagito con incredibile determinazione, andando controcorrente e superando inaudite difficoltà che avrebbero stroncato le gambe a tutti. Dal disagio del parto nella clinica di una stalla, all'espatrio forzato per sfuggire alla persecuzione di Erode. Dai giorni amari dell'asilo politico in Egitto, alla presa d'atto della profezia di Simeone greve di cruenti presagi. Dai sacrifici di una vita grama nei trent'anni del silenzio, all'amarezza del giorno in cui si chiuse per sempre la bottega del "falegname" profumata di vernici e di ricordi. Dalle strette al cuore che le procuravano certe notizie che circolavano sul conto di suo figlio, al momento del calvario quando, sfidando la violenza dei soldati e lo sghignazzo della plebe, si piantò coraggiosamente sotto la croce.

Una prova difficile, la sua. Contrassegnata, come per il figlio morente, dal silenzio di Dio. Una prova senza scenografie e senza sconti sui prezzi della sofferenza, che rende ragione di quell'antifona che risuona nella liturgia del venerdì santo: "O voi tutti che passate per via, fermatevi e vedere se c'è un dolore simile al mio".

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

 

 

Maria, donna in cammino

 

Se i personaggi del Vangelo avessero avuto una specie di contachilometri incorporato, penso che la classifica dei più infaticabili camminatori l'avrebbe vinta Maria.

Gesù a parte, naturalmente. Ma si sa, egli si era identificato a tal punto con la strada, che un giorno ai discepoli da lui invitati a mettersi alla sua sequela confidò addirittura: "Io sono la via".

La via. Non un viandante!

Siccome allora Gesù è fuori concorso, a capeggiare la graduatoria delle peregrinazioni evangeliche è indiscutibilmente lei: Maria!

La troviamo sempre in cammino, da un punto all'altro della Palestina, con uno sconfinamento financo all'estero.

Viaggio di andata e ritorno da Nazaretrh verso i monti di Giuda, per trovare la cugina, con quella specie di supplemento rapido menzionato da Luca il quale ci assicura che "raggiunse in fretta la città". Viaggio fino a Betlem. Di qui, a Gerusalemme per la presentazione al tempio. Espatrio clandestino in Egitto. Ritorno guardingo in Giudea col foglio di via rilasciato dall'Angelo del Signore, e poi di nuovo a  Nazareth. Pellegrinaggio verso Gerusalemme con lo sconto comitiva, e raddoppio del percorso con escursione per la città alla ricerca di Gesù. Tra la folla, ad incontrare lui errante per i villaggi di Galilea, forse con la mezza idea di farlo ritirare a casa. Finalmente sui sentieri del Calvario, ai piedi della croce, dove la meraviglia espressa da Giovanni con la parola "stabat", più che la pietrificazione del dolore per una corsa fallita, esprime l'immobilità statuaria di chi attende sul podio il premio della vittoria.

Icona del "cammina cammina", la troviamo seduta solo al banchetto del primo miracolo. Seduta, ma non ferma. Non sa rimanersene quieta. Non corre col corpo, ma precorre con l'anima. E se non va lei verso "l'ora" di Gesù, fa venire quell'ora verso di lei, spostandone indietro le lancette, finchè la gioia pasquale non irrompe sulla mensa degli uomini.

Sempre in cammino. E per giuna, in salita.

Da quando si mise in viaggio "verso la montagna", fino al giorno del Golgota, anzi fino al crepuscolo dell'ascensione quando salì anche lei con gli apostoli "al piano superiore" in attesa dello Spirito, i suoi passi sono sempre scanditi dall'affanno delle alture.

Avrà fatto anche le discese, e Giovanni ne ricorda una quando dice che Gesù, dopo le nozze di Cana, "discese a Cafarnao insieme a sua madre". Ma l'insistenza con cui il Vangelo accompagna con il verbo "salire" i suoi viaggi a Gerusalemme, più che alludere all'ansimare del petto o al gonfiore dei piedi, sta a dire che la peregrinazione terrena di Maria simbolizza tutta la fatica di un esigente itinerario spirituale.   

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

Maria, donna del riposo

 

 Non è stata la "Madonna della seggiola" a suggerirmi questo titolo.

Anche se la tela di Raffaello, che ritrae la Vergine finalmente seduta e col piccolo Gesù che riposa tra le sue braccia, evoca tutta una costellazione di immagini centrate attorno all'archetipo materno, che dondola la sua creatura per farla addormentare.

Certo anche Maria, come tutte le madri, ha placato il pianto del suo bambino, stringendoselo al petto. Cullandolo con tenerezza. Intonando antiche cantilene orientali per farlo dormire. E vegliando con ansia sul suo placido sonno.

La tradizione popolare ha capito così a fondo questa attitudine materna di Maria, che, per Natale, ha costruito un interminabile repertorio di melodie legate al più primitivo genere musicale: la ninnananna. "Dormi, non piangere, bel pargoletto...".

Vien da pensare che ogni compositore, più che dal desiderio di prestare la voce alla Madonna per fare acquietare Gesù, sia stato mosso dal bisogno di prestarle la voce per sentirsi lui stesso cullato tra le sue braccia materne e trovare riposo nel suo grembo.

A suggerirmi, comunque, il titolo di "Madonna del riposo", non è tanto il figlio che le dorme tra le braccia, quanto lo sposo che le dorme accanto. Sì, perchè solo accanto a una donna come Maria, un uomo aduso alle asprezze della vita come Giuseppe può riposare con tanta serenità, da sognare ininterrottamente.

Il falegname di Nazareth, lo sappiamo, è l'uomo dei sogni.

Di giorno, l'esperienza dura, scabra, interminabile della bottega, popolata di clienti  e di problemi. Di notte, l'irruzione scontata, serena, inesprimibile in un pezzo di cielo, popolato di angeli e di presagi.

Una compensazione procuratagli senza dubbio da Maria, la quale non paga di alleggerirgli di giorno la stanchezza con le premure della mensa, gli favoriva di notte la dolcezza di un riposo che lo introduceva, senza fatica, in quel mondo sovrumano di cui lei era abituale inquilina.

Chi sa quante volte avrà detto a Giuseppe: "Come ti senti? Ti vedo stanco. Non affaticarti così tanto. Riposati un poco".

Giuseppe non udiva tanto da quell'orecchio, e lei allora interveniva con un supplemento di pace, la notte.

Maria, donna del riposo, dunque. Perchè nessuno come lei sperimentava il "sabato" del Signore, ogni volta che cantava il salmo 22: "In pascoli di erbe fresche mi fai riposare...":

Forse Gesù avrà appreso da lei questo stile di tenerezza, che adoperò poi con gli apostoli quando, vedendoli stanchi, diceva loro: "Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un pò". O quando invitava le folle, affrante dalla fatica di vivere, con queste parole: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò ristoro".

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

Maria, donna del vino nuovo

 

Nel Vangelo c'è un episodio, quello delle nozze di Cana, che gli ultimi approfondimenti biblici ci obbligano decisamente a rivedere, soprattutto per ciò che riguarda il ruolo di Maria.

Chissà quante volte ci siamo commossi pure noi dinanzi alla sensibilità della Madre di Gesù che, con fierezza tutta femminile, ha intuito il disappunto degli sposi, a corto di vino, e ha forzato la mano del figlio, troncando sul nascere l'evidente imbarazzo che ormai serpeggia dietro le quinte.

Pare certo, però, che l'intenzione dell'evangelista non fosse tanto quella di mettere in evidenza la sollecitudine di Maria a favore degli uomini, o la potenza della sua intercessione presso il figlio. Quanto, quella di presentarla come colei che percepisce a volo il dissolversi del piccolo mondo antico e, anticipando l'"ora" di Gesù, introduce sul banchetto della storia non solo i boccali della festa, ma anche i primi fermenti della novità.

Festa e novità, quindi, irrompono nella sala su espresso richiamo di lei.

A darcene conferma c'è nella pagina di Giovanni un particolare tutt'altro che accidentale, che anzi, a ben considerarlo, esplode con la prepotenza di un invadente protagonismo. E' costituito dalle sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei.

Oscene nella loro immobilità. Ingombranti nella loro ampiezza prevaricatrice. Gelide come cadaveri, perchè di pietra. Inutili, perchè vuote, agli effetti di una purificazione che sono ormai incapaci di dare.

Sei, e non sette che è il numero perfetto. Simbolo malinconico, quindi, di ciò che non giungerà mai a completezza, che non toccherà più i confini della maturazione, che resterà sempre al di sotto di ogni legittima attesa e di ogni bisogno del cuore.

Ebbene, di fronte a questo scenario di paresi irreversibile rappresentato dalle giare (di pietra, come le tavole di Mosè), Maria non solo avverte che la vecchia alleanza è ormai logora e che l'antica economia di salvezza fondata sulle prescrizioni della Legge ha chiuso da tempo la sua contabilità, ma sollecita coraggiosamente la transizione.

Vede raggiunti i livelli di guardia da un mondo che boccheggia nella tristezza, e invoca da suo figlio non tanto uno strappo alla legge della natura, quanto uno strappo alla natura della legge. Questa non contiene ormai nulla, non è in grado di purificare nessuno, e non rallegra più il cuore dell'uomo.

Interviene, perciò, d'anticipo, e chiede a Gesù un acconto del vino della nuova alleanza che, lei presente, sgorgherà inesauribile nell'ora della croce.

"Non hanno più vino". Non è il tratto di una provvidenziale gentilezza che sopraggiunge ad evitare la mortificazione di due sposi. E' un grido d'allarme che sopraggiunge per evitare la morte del mondo.

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

Maria, donna del silenzio

 

Tra i tanti appellativi mariani, in cui non sai se ammirare di più la fantasia dei poeti o la tenerezza della pietà popolare, ne ho trovato uno di straordinaria suggestione: Maria, cattedrale del silenzio.

Certo, oggi è difficile sperimentare il silenzio nelle cattedrali delle metropoli. Però, chi vi entra condotto dalla voglia di pregare, troverà sempre l'angolo giusto. Sedendo e mirando, gli basterà sollevare lo sguardo al di sopra del pavimento, e il silenzio lo troverà nascosto lassù, nelle penombre delle arcate e tra gli incroci dei costoloni. Anzi, ancora più su. Perchè se si lascerà sedurre dall'altezza della volta, si fingerà nel pensiero anche lui, come il poeta dell'Infinito, "interminati spazi al di là di quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete...".

Maria è appunto come una cattedrale gotica che custodisce il silenzio. Gelosamente. Non lo rompe neppure quando parla. Così come il silenzio del tempio che, là in alto, gioca con le luci colorate delle bifore e con gli intarsi dei capitelli e con le curve dell'abside, non viene rotto ma esaltato dal gemito dell'organo o dalle misteriose cadenze del canto gregoriano, che salgono da giù.

Ma perchè Maria è cattedrale del silenzio?

Intanto, perchè è una donna di poche parole. Nel vangelo parla appena quattro volte. All'annuncio dell'angelo. Quando intona il Magnificat. Quando ritrova Gesù nel tempio. E a Cana di Galilea.

Poi, dopo aver raccomandato ai servi delle nozze di dare ascolto all'unica parola che conta, lei tace per sempre.

Ma il suo silenzio non è solo assenza di voci. Non è il vuoto di rumori. E neppure il risultato di una particolare ascetica della sobrietà. E' invece, l'involucro teologico di una presenza. Il guscio di una pienezza. Il grembo che custodice la Parola.

Uno degli ultimi versetti della lettera ai Romani ci offre la cifra interpretativa del silenzio di Maria. Parla di Gesù Cristo come "rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni".

Cristo, mistero taciuto. Nascosto, cioè, segreto.

Letteralmente: avvolto nel silenzio.

In altri termini: il verbo di Dio nel grembo dell'eternità era fasciato dal silenzio. Entrando nel grembo della storia, non poteva avere altre bende. E Maria gliele ha offerte con la sua persona.

E' divenuta così il prolungamento terreno di quell'arcano tacere del cielo. E' stata costituita simbolo per chi vuol mantenere segreti d'amore. E per noi tutti, devastati dal frastuono, è rimasta scrigno silente della parola: "Serbava tutte queste cose nel suo cuore".

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

Maria, donna obbediente

 

Si sente spesso parlare di obbedienza cieca. Mai di obbedienza sorda. Sapete perchè?

Per spiegarvelo devo ricorrere all'etimologia, che, qualche volta, può dare una mano d'aiuto anche all'ascetica.

Obbedire deriva dal latino "ob-audire". Che significa: ascoltare stando di fronte.

Quando ho scoperto questa origine del vocabolo, anch'io mi sono progressivamente liberato dal falso concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della mia volontà, ed ho capito che essa non ha alcuna rassomiglianza, neppure alla lontana, col supino atteggiamento dei rinunciatari.

Chi obbedisce non annulla la sua libertà, ma la esalta.

Non mortifica i suoi talenti, ma li traffica nella logica della domanda e dell'offerta.

Non si avvilisce all'umiliante ruolo dell'automa, ma mette in moto i meccanismi più profondi dell'ascolto e del dialogo.

C'è una splendida frase che fino a qualche tempo fa si pensava fosse un ritrovato degli anni della contestazione: "Obbedire in piedi". Sembra una frase sospetta, da prendere, comunque, con le molle. Invece è la scoperta dell'autentica natura dell'obbedienza, la cui dinamica suppone uno che parli e l'altro che risponda. Uno che faccia la proposta con rispetto, e l'altro che vi aderisca con amore. Uno che additi un progetto senza ombra di violenza, e l'altro che con gioia ne interiorizzi l'indicazione.

In effetti, si può obbedire solo stando in piedi. In ginocchio si soggiace, non si obbedisce. Si soccombe, non si ama. Ci si rassegna, non si collabora.

Teresa, per esempio, che è costretta a dire sì a tutte le voglie del marito e non può uscire mai di casa perchè lui è geloso, e la sera, quando torna ubriaco e i figli piangono, lei si prende un sacco di botte senza reagire, è una donna repressa, non è una donna obbediente. Il Signore un giorno certamente la compenserà: ma non per la sua virtù, bensì per i patimenti sofferti.

L'obbedienza, insomma, non è inghiottire un sopruso, ma è fare un'esperienza di libertà.

Non è silenzio rassegnato di fronte alle vessazioni, ma è accoglimento gaudioso di un piano superiore.

Non è il gesto dimissionario di chi rimane solo con i suoi rimpianti, ma una risposta d'amore che richiede per altro, in chi fa la domanda, signorilità più che signoria.

Chi obbedisce non smette di volere, ma si identifica a tal punto con la persona a cui vuol bene, che fa combaciare, con la sua, la propria volontà.

Ecco l'analisi logica e grammaticale dell'obbedienza di Maria.

Questa splendida creatua non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure  dal Creatore. Ma dicendo "sì", si è abbandonata a lui liberamente ed è entrata nell'orbita della storia della salvezza con tale coscienza responsabile che l'angelo Gabriele ha fatto ritorno in cielo, recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio di andata.

Forse non sarebbe sbagliato intitolare il primo capitolo di Luca come l'annuncio dell'angelo al Signore, più che l'annuncio dell'angelo a Maria.

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

Maria, donna di servizio

 

Può sembrare irriverente. E qualcuno avvertirà perfino odore di sacrilegio. Non saprei bene se per l'impressione di vedere un appellativo così povero attribuito alla Regina degli angeli e dei santi, o per la scarsa considerazione verso la categoria di coloro che si guadagnano il pane faticando in casa d'altri.

A dire il vero, anche il costume moderno ha ravvisato qualcosa di avvilente nel linguaggio antico: sicchè, il vocabolario, passando attraverso la trafila lessicale di domestica o cameriera, si trastulla con i termini più alla moda, e parla di lavorante alla pari o, addirittura, di "colf", che poi non è altro che una sigla furbesca ricavata dalle iniziali di collaboratrice familiare.

Eppure, quell'appellativo, Maria se l'è scelto da sola.

Per ben due volte, infatti, nel vangelo di Luca, lei si autodefinisce serva. La prima volta, quando, rispondendo all'angelo, gli offre il suo biglietto da visita: "Eccomi, sono la serva del Signore". La seconda, quando nel Magnificat afferma che Dio "ha guardato l'umiltà della sua serva".

Donna di servizio, dunque.

A pieno titolo.

Un titolo che lei si porta incorporato per diritto di nascita e al quale sembra gelosamente tenerci come a un antico blasone nobiliare. Era o non era, se non proprio discendente come Giuseppe, almeno coinvolta con la "casa di Davide suo servo?".

Un titolo che, per una specie di simmetria speculare, le fa riconoscere a colpo sicuro una pari qualifica professionale nel vecchio Simeone, e la induce a consegnare il bambino Gesù nelle braccia di quel "servo", che ora può, finalmente, andarsene in pace.

Un titolo che, durante il banchetto di Cana, visto che tra colleghi ci si intende meglio, la autorizza a rivolgersi "ai servi" con quelle parole che, essendo rimaste un'esigente consegna anche per noi, sembrano un invito ad andarci ad iscrivere tutti nello stesso sindacato: "Fate quello che vi dirà".

Un titolo, insomma, che legittimerebbe la richiesta delle competenti organizzazioni per avere la Vergine Santa come protettrice di coloro che, pur con diversità di prestazione, dalla governante alla "baby-sitter", dalla "nurse" alla fantesca, con livrea o senza livrea, esprimono dei servizi alle dipendenze di una famiglia.

Eppure, quell'appellativo, così autoreferenziato, non trova posto nelle litanie lauretane! Forse perchè, anche nella Chiesa, nonostante il gran parlare che se ne fa, l'idea del servizio evoca spettri di soggezione, allude a declassamenti di dignità, e sottindente cali di rango, che sembrano incompatibili col prestigio della Madre di Dio. La qual cosa fa sospettare che perfino la diaconia della Vergine sia rimasta un concetto ornamentale che intride i nostri sospiri, e non un principio operativo che innerva la nostra esistenza.

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

20 - Maria, donna vera

 

Vi confesso che rimango sconcertato anch'io.

Quando penso alla Madonna (questo sogno incredibile sognato dal Signore), e poi vedo alla televisione le lacrime delle madri palestinesi, o scorgo sulle riviste missionarie i volti denutriti delle donne dell'Amazzonia, e apprendo da certi impietosi "reportages" le condizioni subumane delle ragazze del Bangladesh, io mi chiedo se abbia qualcosa da spartire con queste infelici creature la storia di Maria.

E quando sulla pubblica strada incrocio "una di quelle", che la miseria, più che lo smarrimento, ha spinto a vendersi per sopravvivere, mi domando se Maria tirerebbe diritto anche lei, come faccio io nella mia intemerata prudenza. Mi risulta, comunque, molto difficile immaginare quali parole, fermandosi, uscirebbero dalla sua bocca.

Così pure ogni volta che ascolto la pena di tante donne violentate dai loro uomini, tenute sotto sequestro dai loro padri, o confiscate nei diritti più elementari dalle prevaricazioni del maschio, faccio una gran fatica a supporre quale rapporto ci possa essere tra Maria e queste creature, la cui mansuetudine sembra spesso dolcezza ma è rassegnazione, si esprime come condiscendenza ma è avvilimento, mostra i lampi del sorriso ma nasconde la malinconia delle lacrime.

Anche, però, quando penso a certe donne apparentemente emancipate, mi ritorna con insistenza il problema del loro confronto con Maria.

Chi sa che la "soubrette" del varietà di provincia o la soprano della Scala di Milano non invochino il suo nome prima di esibirsi sul palcoscenico? O la fotomodella del rotocalco per adulti e la campionessa di pattini a rotelle non ne avvertano il fascino sovrumano? O che la violinista della filarmonica di Filadelfia e "l'entraineuse" di un locale notturno d'alta classe non ne percepiscano la dimensione spirituale? Che cosa pensano di lei le "hostess" dei "boeing" intecontinentali, o le componenti del corpo di ballo del Bolscioi? A parte la catenina d'argento con la medaglietta di lei appesa al collo, quali reazioni suscita il nome di Maria nelle atlete della nazionale di pallacanestro in giro per il mondo, o nelle presentatrici della televisione, o nelle eleganti protagoniste dei salotti letterari?

Maria, insomma, è buona solo come punto di riferimento per le monache di clausura e per le ragazze tutte casa e chiesa, o è l'aspirazione struggente di ogni donna che voglia vivere in pienezza la sua femminilità?

Le donne della terra la guardano con tenerezza perchè nella sua vita terrena ha riassunto i misteri dolorosi di tutte le loro suggestioni? O perchè e il simbolo eloquente di chi sperimenta i misteri gaudiosi dell'esodo dai "laghi amari" dell'antica condizione servile? O perchè è l'immagine che sintetizza i misteri gloriosi della definitiva liberazione della donna da tutte le schiavitù che, nel corso della storia, ne hanno sfigurato la dignità?

Sono domande, forse un pò dissennate, alle quali non so dare una risposta, ma per le quali so fare una preghiera.

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

21 - Maria, donna del popolo

 

 Sì, il Signore se l'è scelta proprio di là.

Oggi diremmo: dai rioni popolari, grevi di sudori e impregnati di stabbio. Dai quartieri bassi, dove i tuguri dei poveri, se rimangono ancora in piedi, è perchè si appoggiano a vicenda.

Penso a certe periferie, dove le zanzare brulicano sulle pozzanghere della strada, e le mosche volteggiano sugli escrementi. O a certe zone del centro storico, imbandierate con i panni del bucato, dove vige il condominio degli stessi rumori e degli stessi silenzi.

Il Signore, Maria l'ha scoperta lì. Nell'intreccio dei vicoli, profumati di minestre e allietati dal grido dei fruttivendoli. Tra le fanciulle che, dai pianerottoli colmi di gerani, parlavano d'amore. Nel cortile dove i vicini prolungavano nell'ultimo sbadiglio i racconti della sera, prima che si consumasse l'olio della lampada e risonasse il tintinnare dei chiavistelli e si sprangassero gli usci.

L'ha scoperta lì. Non lungo i corsi della capitale, ma in un villaggio di pecorai, sconosciuto nell'Antico Testamento, anzi, additato al pubblico sarcasmo dagli abitanti delle borgate vicine:"Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?".

L'ha scoperta lì, in mezzo alla gente comune, e se l'è fatta sua.

Maria non aveva particolari ascendenze dinastiche. L'araldica della sua famiglia non vantava stemmi nobiliari come Giuseppe. Lui sì: benchè si fosse ridotto a fare il carpentiere, era del casato illustre di Davide. Lei, invece era una donna del popolo. ne aveva assorbito la cultura e il linguaggio, i ritornelli delle canzoni e la segretezza del pianto, il costume del silenzio e le stigmate della povertà.

Prima di diventare madre, Maria era, dunque, figlia del popolo. Apparteneva, anzi, all'anima più intima del popolo: agli "anawim", alla schiera dei poveri. Al resto d'Israele, sopravvissuto allo sgretolamento delle tragedie nazionali. A quel nucleo residuale, cioè, che teneva vive le speranze dei profeti, nel quale si concentravano le promesse dei patriarchi, e da cui passava il filo rosso della fedeltà: "Farò stare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d'Israele". Così aveva profetato Sofonia.

Donna del popolo, Maria si mescola con i pellegrini che salgono al tempio e si accompagna alle loro salmodie. E se in uno di questi viaggi oerde Gesù dodicenne, è perchè, "credendolo nella carovana", non sa immaginarsi suo figlio estraneo all'ansimare della gente comune.

C'è nel vangelo di Marco una icona di incomparabile bellezza che delinea la natura, la vocazione e il destino popolare di Maria. Un giorno, mentre Gesù sta parlando alla folla che lo ascolta seduta in cerchio, arriva lei con alcuni parenti. A chi lo avverte della sua presenza, Gesù, girando tutto intorno lo sguardo e additando la folla, esclama: "Ecco mia madre....". A prima vista, potrebbe sembrare una scortesia. Invece, la risposta di Gesù, che identifica sua madre nella folla, è il monumento più splendido eretto a Maria, donna fatta popolo.

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

22 - Maria, donna che conosce la danza

 

Ho cambiato il titolo all'ultimo momento. Ma vi parlerò lo stesso di quel che avevo progettato: del rapporto, cioè, di Maria con la morte.

Che cosa c'entri la morte con la danza, ve lo voglio spiegare subito.

Mi sono messo a leggere in questi giorni un libro sulla Madonna, scritto da una nota docente di antropologia, e sono riuscito ad andare avanti, quasi fino al termine, senza turbarmi un granchè, quando, proprio nelle ultimissime pagine, ho colto una frase che mi è sembrata pesante come un'ingiuria: "Maria non potrà mai danzare".

O Dio: nel libro c'è di peggio, perchè vengono scardinate le verità più salde che i credenti hanno sempre professato sul conto della Madonna.

Però, mentre non mi ha scandalizzato più di tanto il sorriso di sufficienza

sul suo immacolato concepimento o sulla sua verginale maternità, mi ha dato invece un fastidio incredibile l'insinuazione che lei non sapesse danzare.

Mi è parso, insomma, un enorme sacrilegio. Un oltraggio alla sua umanità. Un delitto contro ciò che ce la rende più cara: l'incredibile dolcezza comune alle figlie di Eva.

Che cosa si nasconde, infatti, sotto questa frase, se non l'affermazione che Maria non ha avuto un corpo come le altre donne, e che la sua era una femminilità per modo di dire, o, comunque, così disincarnata ed avanescente, da renderle impossibile il prolungarsi gestuale nel vortice della danza?

E non vi sembra una bestemmia il solo sospetto che Maria fosse una creatura svigorita di passioni, povera di slanci, priva di calore umano, macerata solo da digiuni e astinenze, genuflessa sugli specchi frigidi delle contemplazioni, incapace di quegli struggimenti interiori che esplodono appunto nella grazia del canto e nella dilatazione corporea del ritmo?

Che Maria fosse esperta di danza, sta a dircelo una parola-spia, presente nel suo vocabolario: "esultare". Viene dal latino "ex-saltare", che significa appunto saltellare qua e là. Sicchè, quando lei esclama: "Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore", non solo tradisce la sua straordinaria competenza musicale, ma ci fa sospettare che il Magnificat deve averlo cantato danzando.

Qualcuno forse si chiederà perchè mai mi sia tanto ostinato a sottolineare questa particolare attitudine "artistica" di Maria. La risposta è semplice: non può sostenere la morte chi non sa sostenere la danza!

Dire, perciò, che Maria non potrà mai danzare, significa ritenerla estranea a ciò che morte e danza hanno in comune: l'affanno del respiro, lo spasimo dell'agonia, la contrazione dolorosa del corpo.

Significa svuotare di valore salvifico la sofferenza della Madonna, e ridurre il mistero dell'Addolorata, nonostante le sette spade confitte nel cuore, ad uno spettacolo appariscente, allestito da Dio per funzionali ragioni scenografiche.

Significa considerarla "partner" impassibile di un Altro, esperto pure lui di danza, che però Isaia chiama "Uomo dei dolori che ben conosce il patire".

Significa, insomma, radiare Maria dallo scenario del venerdì santo, sul quale recita da protagonosta, accanto a Gesù, il dramma del'umana redenzione giunto ormai alle ultime battute. 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

23 - Maria, donna del sabato santo

 

Nelle feste c'è Lui.

Nelle vigilie, al centro, c'è Lei.

Discreta come brezza d'Aprile che ti porta sul limitare di casa profumi di verbene, fiorite al di là della siepe.

Ci sono, a volte, degli attimi così densi di mistero, che si ha l'impressione di averli già sperimentati in altre stagioni della vita. E ci sono degli attimi così gonfi di presentimenti, che vengono vissuti come anticipazioni di beatitudini future.

Nel giorno del sabato santo, di questi attimi, ce n'è più di qualcuno. E' come se cadessero all'improvviso gli argini che comprimono il presente. L'anima, allora, si dilata negli spazi retrostanti delle memorie. Oppure, allungandosi in avanti, giunge a lambire le sponde dell'eterno rubandone i segreti, in rapidi acconti di felicità.

Come si spiega, infatti, se non con questo rimpatrio nel passato, il gruppo di allusioni che, superata appena la "Parasceve", si dipana al primo augurio di buona pasqua, e si stempera in mille rigagnoli di ricordi, fluenti tra anse di gesti rituali?

La casa, vergine di lavacri, che profuma d'altri tempi. L'amico giunto dopo tanti anni, nei cui capelli già grigi ti attardi a scorgere reliquie d'infanzie comuni. Il dono opulento, là in cucina, tra le cui carte stagnole cerchi invano sapori di antiche sobrietà.... quando era viva lei, e la madia nascondeva solo stupori di uova colorate. Il grembo vuoto della chiesa, il cui silenzio trabocca di richiami, e dove nel vespro ti decidi finalmente a entrare, come una volta, per riconciliarti con Dio e sentirti restituire a innocenze perdute.

E come si spiega, se non con il crollo delle dighe erette dai calendari terreni, quel sentimento pervasivo di pace che, nel sabato sera, almeno di sfuggita, irrompe dal futuro e ti interpella con strani interrogativi a cui senti già di poter dare risposte di gioia?

C'è un tempo in cui la gente starà sempre a scambiarsi strette di mano e sorrisi, così come fa oggi? Verranno giorni sottratti all'usura delle lacrime? Esistono spazi di gratituità, dove non smetteremo più gli abiti della festa? Ci sono davvero delle stagioni in cui la vita sarà sempre così?

Fascino struggente del sabato santo, che ti mette nell'anima brividi di solidarietà perfino con le cose e ti fa chiedere se non abbiano anch'esse un futuro di speranza!

Che cosa faranno gli alberi stanotte, quando suoneranno a stormo le campane? Le piante del giardino spanderanno insieme, come turiboli d'argento, la gloria delle loro resine? E gli animali del bosco ululeranno i loro concerti mentre in chiesa si canta l'Exultet? Come reagirà il mare, che brontola sotto la scogliera, all'annuncio della risurrezione? L'angelo in bianche vesti farà fremere le porte anche dei postriboli? Oltre ai cancelli del cimitero, sussulteranno sotto il plenilunio le tombe dei miei morti? E le montagne, non viste da nessuno, danzeranno di gioia attorno alle convalli?

Una risposta capace di spiegare il tumulto di queste domande io ce l'avrei. Se nel sabato santo il presente sembra oscillare su passato e futuro, è perchè protagonista assoluta, sia pur silenziosa, di questa giornata è Maria.

Dopo la sepoltura di Gesù, a custodire la fede sulla terra non è rimasta che lei. Il vento del Golgota ha spento tutte le lampade, ma ha lasciato accesa la sua lucerna. Solo la sua. Per tutta la durata del sabato, quindi, Maria resta l'unico punto-luce in cui si concentrano gli incendi del passato e i roghi del futuro. Quel giorno ella va errando per le strade della terra, con la lucerna tra le mani. Quando la solleva su un versante, fa emergere dalla notte dei tempi memorie di santità; quando la solleva sull'altro, anticipa dai domicili dell'eterno riverberi di imminenti trasfigurazioni.

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

24 - Maria, donna del terzo giorno

 

Vorrei che fosse Maria in persona a entrare in casa vostra, a spalancarvi la finestra, e a darvi l'augurio di buona Pasqua.

Un augurio immmenso quanto le braccia del condannato, stese sulla croce o librate verso i cieli della libertà.

Molti si chiedono sorpresi perchè mai il vangelo, mentre ci parla di Gesù apparso nel giorno di Pasqua a tantissime persone, come la Maddalena, le pie donne e i discepoli, non ci riporti, invece, alcuna apparizione alla Madre da parte del Figlio risorto.

Io una risposta ce l'avrei: perchè non ce ne era bisogno!

Non c'era bisogno, cioè, che Gesù apparisse a Maria, perchè lei, l'unica, fu presente alla risurrezione.

I teologi, per la verità, ci dicono che questo evento fu sottratto agli occhi di tutti, si svolse nelle insondabili profondità del mistero ,e, nel suo attuarsi storico, non ebbe alcun testimone. Io penso, però, che un'eccezione ci fu: Maria, l'unica, dovette essere presente a questa peripezia suprema della storia.

Come fu presente, l'unica, al momento dell'incarnazione del Verbo. 

Come fu presente, l'unica, all'uscita di lui dal suo grembo verginale di carne. E divenne la donna del primo sguardo su Dio fatto uomo.

Così dovette essere presente, l'unica, all'uscita di lui dal grembo verginale di pietra: il sepolcro "nel quale nessuno era stato ancora deposto". E divenne la donna del primo sguardo dell'uomo fatto Dio.

Gli altri furono testimoni del Risorto. Lei, della Risurrezione.

Del resto, se il legame di Maria con Gesù, fù così stretto che ne ha condiviso tutta l'esperienza redentrice, è impensabile che la resurrezione, momento vertice della salvezza, l'abbia vista dissociata dal figlio.

Sarebbe l'unica assenza: e resterebbe, per di più, un'assenza stranamente ingiustificata.

A darci conferma, comunque, di quanto la vicenda della Madre sia incastrata con la Pasqua del Figlio, ci sono nel Vangelo almeno due pagine, in cui la frase "terzo giorno" , sigla cronologica che designa la resurrezione, è riferita alla presenza, se non proprio al protagonismo, di Maria.

La prima pagina è di San Luca. Racconta la scomparsa di Gesù dodicenne nel tempio ed il suo ritrovamento al "terzo giorno". Gli studiosi sono ormai concordi nell'interpretare quest'episodio come una profezia velata di quanto sarebbe accaduto in seguito ai discepoli, nel tempo in cui Gesù compì il suo passaggio da questo mondo al Padre, sempre a Gerusalemme, in una Pasqua di tanti anni dopo. Si tratterebbe, cioè, di una parabola allusiva alla scomparsa di Gesù dietro la pietra del sepolcro, ed al suo glorioso riapparire dopo tre giorni.

La seconda pagina è di san Giovanni. Riguarda le nozze di Cana, durante le quali l'intervento di Maria, anticipando l'"ora" di Gesù, introduce sul banchetto degli uomini il vino della nuova alleanza pasquale, e fa esplodere anzitempo la "gloria" della resurrezione. Ebbene, anche questo episodio è introdotto da un marchio di origine controllata: "Il terzo giorno".

Maria, dunque, è colei che ha a che fare col "terzo giorno", a tal punto che non solo è la figlia primogenita della Pasqua, ma in un certo senso ne è anche la madre.

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

25 - Maria, donna conviviale

 

No. Non vi propongo un'ulteriore considerazione sul "segno" delle nozze di Cana e sulla presenza di Maria a quel convito di festa.

Desidero presentarvi, invece, la singolare definizione che uno scrittore medievale, Ildefonso di Toledo, ci dà della Vergine Santa: "Totius Trinitatis nobile triclinium". Che vuol dire: "nobile tavola da pranzo per tutte e tre le persone divine".

Mediante questa immagine splendida e ardita, la Madonna è messa in relazione con la Trinità e viene descritta come la tavola elegante attorno a cui il Padre, il Figlio e lo Spirito esprimono la loro convivialità.

Per associazione di immagini, la fantasia corre alla celebra Icona di Rublev. Al centro della scena, una mensa, che raduna insieme le tre persone, in solidarietà di vita e in comunione di opere. Vien da pensare che Maria sia appunto quella nobile mensa.

Fermiamoci qui: non vorremmo perderci in un terreno che è già pieno di insidie dottrinali perfino per i teologi più scaltriti. Ci basta aver intuito che la Madonna, comunque, esercita un ruolo fondamentale all'interno del mistero trinitario.

Però, se è difficile speculare sul ruolo di Maria all'interno della comunità divina che vive nell'alto dei cieli, dovrebbe essere più agevole scorgere la funzione di lei all'interno di ogni comunità umana che vive nel basso della terra.

Noi lo sappiamo: dalla famiglia alla parrocchia, dall'istituto religioso alla diocesi, dal gruppo impegnato al seminario... ogni comunità, che vuol vivere sulla scorta del vangelo, porta in sè qualcosa di sacramentale: è per sua natura, cioè, segno e strumento della comunione trinitaria. Deve riprodurre la logica, viverne la convivialità, esprimerne il mistero. Potremmo definire le comunità ecclesiali come dislocazioni terrene, agenzie periferiche, riduzione in scala, di quella esperienza misteriosa che il Padre, il Figlio e lo Spirito fanno nel cielo.

Nel cielo più persone uguali e distinte vivono a tal punto la comunione da formare un solo Dio. Sulla terra, più persone uguali e distinte devono vivere la comunione, così da formare un solo uomo: l'uomo nuovo, Cristo Gesù.

Ogni aggregazione ecclesiale, quindi, ha il compito di presentarsi come icona della Trinità. Luogo di relazioni vere, cioè, in cui si riconoscano i volti delle persone, se ne promuova l'uguaglianza, e se ne impedisca l'omologazione nell'anonimato della massa.

Ora, se Maria è la nobile tavola attorno a cui siedono le tre persone divine, è proprio difficile intuire che ella gioca un ruolo di primo piano anche all'interno di quelle comunità terrene che abbiamo chiamato agenzie periferiche del mistero trinitario?

Ed è davvero spericolato pensare che senza questo "nobile triclinio" costituito dalla vergine, attorno a cui siamo chiamati a sederci,ogni tentativo di comunione sarà destinato a naufragare?  

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

26 - Maria, donna del piano superiore

 

Icona. Con questo termine si indicano le immagini sacre dipinte su legno, che gli orientali venerano con particolare devozione. Avvolte di luce, imprigionano una scintilla del mistero divino, per cui, giustamente, qualcuno le ha definite finestre del tempo aperte sull'eterno.

Icona. Con questo termine, forse per il tratteggio nitido con cui vengono schizzate, oggi si usano chiamare anche quelle scene bibliche che racchiudono, con la forza rapida dei medaglioni celebrativi, un importante messaggio di salvezza.

Ebbene di queste icone, il primo capitolo deli Atti, ne registra una di straordinario splendore, quando dice che gli apostoli, dopo l'ascensione, in attesa dello Spirito Santo, "salirono al piano superiore, dove abitavano". E con loro c'era anche Maria, la madre di Gesù.

E' l'ultima sequenza biblica in cui compare la Madonna. Ella si sottrae definitivamente alle luci della ribalta così. Dall'alto di questa postazione. Al piano superiore. Quasi per indicarci i livelli spirituali su cui deve svolgersi l'esperienza di ogni cristiano.

In verità, tutta la vita di Maria si è sviluppata, per così dire, ad alta quota.

Non che abbia disdegnato il domicilio della povera gente. Tutt'altro. Le mogli dei pecorai, per un panno cucito dalle sue mani,  barattavano con lei latte e formaggi. Le vicine di casa non si accorsero mai del mistero nascosto in quella vita apparentemente così terra terra. Nè le contadine di Nazareth sperimentarono in lei quelle prese di distanza con cui spesso chi fa carriera mortifica i compagni di un tempo. Andava con loro al mercato. Tirava come loro sui prezzi. Usciva con le altre sulla strada, dopo gli acquazzoni d'estate, per arginare i torrenti di pioggia. E nelle sere di maggio, la sua voce risuonava nel cortile, accompagnandosi ai cori dele antiche cantilene orientali, ma senza sovrastare nessuno.

Maria, insomma, pur consapevole del suo sovrumano destino, non ha mai voluto vivere nei quartieri alti. Non si è mai costruita piedistalli di gloria. E ha sempre rifiutato le nicchie che potessero impedirle la gioia di vivere a piano terra con la gente comune.

Si è, però, riservata una specola altissima, questo sì, da cui contemplare non solo il senso ultimo della sua vicenda umana, ma anche le traiettorie lunghe della tenerezza di Dio.

Ci sono due punti strategici, nella vita di Maria, che ci danno la conferma di come lei fosse inquilina abituale di quel piano superiore che lo Spirito Santo l'aveva chiamata ad abitare: l'altura del Magnificat e l'altare del Golgota.

Da quell'altura ella spinge lo sguardo fino agli estremi confini del tempo. E, cogliendo il distendersi della misericordia di Dio di generazione in generazione, ci offre la più organica lettura che si conosca della storia della salvezza.

Da quell'altare ella spinge lo sguardo fino agli estremi confini dello spazio. E, stringendo il mondo con un unico abbraccio, ci offre la più sicura garanzia che gli angoli sfiorati dai suoi occhi materni saranno raggiunti anche dallo Spirito, sgorgato dal fianco di Cristo.

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

27 - Maria, donna bellissima

 

E' vero. Il vangelo non ci dice nulla del volto di Maria. Come, del resto, non ci dice nulla del volto di Gesù.

Forse è meglio. Così a nessuno di noi viene tolta la speranza di sentirsi dire un giorno, magari da un arcangelo di passaggio:"Lo sai che a tua madre e a tuo fratello ti rassomigli tanto?".

Maria, comunque, doveva essere bellissima.

Non parlo solo della sua anima.

La quale, senza neppure l'ombra del peccato, era limpida a tal punto che Dio vi si specchiava dentro. Come le montagne esterne che, lì sulle Alpi, si riflettono nella immobile trasparenza dei laghi.

Parlo, anche, del suo corpo di donna.

La teologia, quando arriva a questo punto, sembra sorvolare sulla bellezza fisica di lei.

La lascia celebrare ai poeti: "Vergine bella, che di sol vestita, coronata di stelle, al sommo Sole piacesti sì che in te la sua luce ascose...".

La affida alle canzoni degli umili: "Mira il tuo popolo o bella Signora..".

O agli appassionati ritornelli della gente: "Dell'aurora tu sorgi più bella... non vi è stella più bella di te".

O al rapido saluto di un'antifona: "Vale, o valde decora". Ciao, bellissima!.

O alle allusioni liturgiche del "Tota pulchra". Tutta bella sei, o Maria. Sei splendida, cioè, nell'anima e nel corpo!.

Essa però, la teologia, non va oltre. Non si sbilancia. Tace sulla bellezza umana di Maria. Forse per pudore. Forse perchè paga di aver speso tutto speculando sul fascino soprannaturale di lei. Forse perchè  debitrice a diffidenze non ancora superate circa la funzione salvifica del corpo. Forse perchè preoccupata di ridurre l'incanto di lei a dimensioni naturalistiche, o timorosa di dover pagare il dazio ai miti dell'eterno femminile.

Eppure, non dovrebbe essere difficile trovare nel vangelo la spia rivelatrice della bellezza corporea di Maria.

C'è una parola greca molto importante, carica di significati. Questa parola, che fonda sostanzialmente tutta la serie dei privilegi soprannaturali della fanciulla di nazareth, risuona nel saluto dell'angelo: "Kecharitomène". Viene tradotta con l'espressione "piena di grazia". Ma non potrebbe trovare il suo equivalente in "graziosissima", con allusioni evidenti anche all'incantevole splendore del volto umano di lei?

Credo prorpio di sì. E senza forzature. Così come senza forzature Paolo VI, in un celebre discorso del 1975, ha avuto l'ardire di parlare per la prima volta di Maria come "la donna vestita di sole, nella quale i raggi purissimi della bellezza umana si incontrano con quelli sovrumani, ma accessibili, dela belllezza soprannaturale".

 

 

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

28 - Maria, donna elegante

 

Il vangelo non dice nulla. Ma i riferimenti biblici che alludono all'eleganza di Maria sono tantissimi.

Basterebbe pensare a quel passo del cantico dei cantici nel quale la liturgia intravede, come in filigrana, la figura della Madonna che lotta in nostro favore contro le forze del male: "Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?".

Il testo latino dice :"Electa ut sol".

"Electa" vuol dire elegante. Ha la stessa radice verbale. Elegante com il sole.

Non c'è chi non veda come, di fronte a lei, i modelli disegnati da Valentino sembrano ciarpame, e le creazioni di giorgio Armani scampoli da rigattieri.

Ma c'è anche l'Apocalisse che riprende gli elementi cosmici del sole, della luna e delle stelle, con cui l'arte di tutti i secoli ha imbastito le cose più leggiadre sull'eleganza di Maria:"Nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle".

E poco più avanti ricorre un altro celebre testo, che si riferisce, è vero, alla nuova Gerusalemme, ma nel quale la trdizione, attraverso quel gioco di dissolvenze teologiche per cui spesso realtà e segni si scambiano le parti, hai scorto la presenza di lei: "Sono giunte le nozze dell'Agnello; la sua sposa è pronta, le hanno dato una veste di lino pura, splendente. La veste di lino sono le opere giuste dei santi.".

La Vergine, quindi, questa anticipazione meravigliosa della Chiesa, scende dal cielo, adorna di monili e palpitante di veli, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E' tutto un inno all'eleganza di Maria.

Una eleganza, chiaramente, da leggere in termini di finezza interiore, e non certo sulla base delle sue frequentazioni presso le "boutiques" di nazareth o gli "ateliers" di alta moda di gerusalemme.

Benchè, a meditare attentamente il vangelo, non sembrano del tutto fuori posto le allusioni anche all'eleganza fisica di maria.

Io non so se nell'intimità della casa, dove fioriscono i vezzeggiativi della tenerezza, gesù si divertisse a chiamare sua madre con i nomi delle piante più profumate, come un giorno avrebbe fatto la Chiesa: rosa di gerico, giglio delle convalli, cedro del Libano, palma di cades... C'è da supporre, però, che pensasse proprio a lei, fiore di bellezza, quando un giorno disse alle folle: "Osservate come crescono i gigli dei campi.. io vi dico che neppure salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro".

Come pure, c'è da suporre che pensasse prorpio a lei quando disse: "Lucerna del corpo è l'occhio. Se il tuo occhio è chiaro, tutto il corpo sarà mella luce". In quel momento dovettero balenargli gli occhi di sua madre. Quegli occhi in cui non solo trasluceva la trasparenza dell'anima, ma che davano spessore di santità anche all'eleganza del suo corpo.

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

29 - Maria, donna dei nostri giorni

 

Maria, la vogliamo sentire così. Di casa. Mentre parla il nostro dialetto. Esperta di tradizioni antiche e di usanze popolari. Che, attraverso le coordinate di due o tre nomi, ricostruisce il quadro delle parentele, e finisce col farsi scoprire consanguineo con quasi tutta la città.

Vogliamo vederla così. Immersa nella cronaca paesana. Con gli abiti del nostro tempo. Che non mette soggezione a nessuno. Che si guadagna il pane come le altre. Che parcheggia la macchina accanto alla nostra. Donna di ogni età: a cui tutte le figlie di Eva, quale che sia la stagione della loro vita, possano sentirsi vicine.

Vogliamo immaginarla adolescente, mentre nei meriggi d'estate risale dalla spiaggia, in bermuda, bruna di sole e di bellezza, portandosi negli occhi limpidi un frammento dell'Adriatico verde. E d'inverno, con lo zaino colorato, va in palestra anche lei. E passando per corso Umberto,  saluta la gente con tenerezza. E ispira in chi la guarda nostalgie di castità. E conversa nel cerchio degli amici, sul viale Pio XI, la sera. E rende felici gli interlocutori, che la ripagano con sorrisi senza malizia. E va a braccetto con le compagne, e ne ascolta le confidenze segrete, e le sprona ad amare la vita.

Vogliamo darle uno dei nostri cognomi: Salvemini, Tattoli, Minervini, Gadaleta, Carabellese, Altomare, De candia, Pansini.... e pensarla come alunna di un nostro liceo, e come operaia in un maglificio della nostra città, o dattiligrafa nello studio del commercialista di fronte, o commessa in una "boutique" di corso Margherita.

Vogliamo sperimentarla mentre passa per le strade del centro storico e si ferma a conversare con le donne di via Amente. O incontrarla al cimitero, la domenica, mentre depone un fiore ai suoi morti. O mentre il giovedì si reca al mercato, e tira sul prezzo anche lei. O quando alla mezza, con tutte le madri davanti al "Manzoni", attende che il suo bambino esca da scuola per portarselo a casa e ricoprirlo di baci.

Non la vogliamo ospite. Ma concittadina. Interna ai nostri problemi comunitari. Preoccupata per il malessere che scuote la nostra città. Ma contenta anche di condividere la nostra esperienze spirituale, contraddittoria ed esaltante. Fiera per lo spessore culturale della nostra città: per le sue chiese, per la sua arte, per la sua musica., per la sua storia. E gioiosa di appartenere al nostro ceppo di contadini, di naviganti, di esuli inguribilmente stregati dalla loro terra natale.

Maria, la vogliamo sentire così. Tutta nostra, ma senza gelosie. Molfettese purosangue. Che a Natale canta la Santa allegrezza. e in Quaresima il Vexilla regis: con le stesse cadenze delle nostre donne che sfilano in processione con le lampade accese.

La vogliamo nelle nostre liste anagrafiche. nei nostri sogni festivi e nelle asprezze feriali. Sempre pronta a darci una mano. A contagiarci della sua speranza. A farci sentire, con la sua struggente purezze, il bisogno di Dio. E a spartire con noi momenti di festa e di lacrime. Fatiche di vendemmie e di frantoi. Profumi di forno e di bucato. Lacrime di partenze e di arrivi. Come una vicina di casa, dei tempi antichi. O come dolcissima inquilina che si affaccia sul pianerottolo del nostro condominio. O come splendida creatura che ha il domicilio sotto il nostro stesso numero civico. E riempie di luce tutto il cortile. 

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

30 - Maria, donna dell'ultima ora

 

  "Nunc et in hora mortis nostrae".

In latino suona meglio. Soprattutto quando l'Ave Maria viene cantata. Sembra allora che la corrente melodica dilaghi in un estuario di tenerezza, e concentri nelle ultime quattro parole le più sanguinanti implorazioni dell'uomo.

"Adesso e nell'ora della nostra morte".

Anche in italiano non è da meno. Soprattutto quando, irrompendo le ombre della sera, l'Ave Maria viene recitata dal popolo dei poveri, nei banchi di una chiesa, con le cadenze del rosario.

Sembrano cadenze monotone. Ma dal centro di quelle scarne parole si sprigionano viluppi di sensazioni intraducibili,che non si capisce bene se ti spingano sul discrimine che separa il tempo dall'eterno, o ti arretrino invece negli spazi di un passato remoto carico di ricordi.

Certo è che, man mano che quelle parole vengono ripetute, la mente si affolla di immagini dolcissime, tra le quali predomina l'immagine di lei, l'altra madre, che nelle sere d'inverno, vicino al ceppo acceso, o sotto le stelle nelle notti d'estate, attorniata dai familiari e dai vicini di casa, ripeteva con la corona tra le mani: "Santa maria, madre di Dio...".

Sembra che alla Madonna non si sappia chedere altro: "Prega per noi peccatori". Forse perchè, in fondo, l'essenziale stà lì. Tutto il resto è corollario di quell'unica domanda. Ed ecco allora, per cinquanta volte, la stessa supplica struggente : "Adesso e nell'ora della nostra morte".

Viene da chiedersi, comunque, perchè mai l'Ave Maria essensializzi a tal punto l'implorazione da ridurla a una sola richiesta.

Le ragioni possono essere due.

Anzitutto, Maria è esperta di quell'ora. Perchè fu presente all'ora del Figlio. Ne visse, cioè, da protagonista la peripezia suprema di morte e glorificazione, verso cui precipita tutta la storia della salvezza. In quell'ora, Gesù le ha consegnato i suoi fratelli simbolizzati da Giovanni, perchè li considerasse come suoi figli.

Da quel momento lei è divenuta guardiana della nostra ultima ora, e si rende presente in quella frazione di tempo in cui ognuno di noi si gioca il suo eterno destino.

Il secondo motivo sta nel fatto che l'hora mortis è un passaggio difficile. Un transito che mette paura, per quella carica di ignoto che si porta incorporata. Una trasumanza che sgomenta, perchè è l'unica che non si può programmare nei tempi, nei luoghi e nelle modalità. E' come affrontare un'esile passerella di canne che oscilla sul vortice di un larghissimo fiume, pronto a inghiottirti.

Di qui, il realismo della preghiera: "Ora pro nobis... nunc et in hora mortis nostrae".

Tu, cioè, che sei esperta di quell'ora, dacci una mano perchè ognuno, quando essa scoccherà sul quadrante della sua vita, l'accolga con la serenità di Francesco d'Assisi: "Laudato sie, mi Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente pò skappare".

 

 

Tratto da: Maria, donna dei nostri giorni di Don Tonino Bello

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